mercoledì 17 febbraio 2010

31

Talenti

«Che ruolo hanno i licantropi in tutto questo?», chiese Tanya lanciando un'occhiata a Jacob.

Prima che Edward potesse aprire bocca fu Jacob stesso a rispondere. «Se i Volturi non sono disposti a dar retta a Nessie, a Renesmee, cioè», si corresse, rendendosi conto che a Tanya il suo stupido soprannome non avrebbe detto niente, «li fermeremo noi».

«Molto coraggioso, ragazzino, ma sarebbe un'impresa disperata anche per gente molto più esperta di voi».

«Non sai ciò che siamo in grado di fare».

Tanya si strinse nelle spalle. «La vita è vostra, potete farci quel che vi pare».

Jacob lanciò a Renesmee - ancora in braccio a Carmen, con Kate china sopra di lei - uno sguardo evidentemente carico di profondo affetto.

«È una piccola molto speciale», concesse Tanya come pensando ad alta voce. «Difficile resisterle».

«Una famiglia piena di talenti», mormorò Eleazar mentre, nel frattempo, il ritmo del suo andirivieni era aumentato e schizzava dalla porta a Carmen e viceversa a intervalli di un secondo. «Il padre legge nel pensiero, la madre è uno scudo e questa bimba eccezionale possiede un qualche potere magico con cui ti incanta. Mi chiedo se ci sia un termine per definire quello che fa, o se sia normale per una mezza vampira. Anche se "normale", insomma, è una parola grossa per una creatura che è un vampiro ibrido!».

«Scusa», disse Edward come stordito, posando una mano sulla spalla di Eleazar per bloccarlo prima che schizzasse di nuovo verso la porta. «Cos'hai detto che è mia moglie?».

Eleazar lo guardò incuriosito e per un attimo cessò il suo passeggiare nervoso. «Uno scudo, credo. In questo momento mi sta bloccando, quindi non ne sono sicuro».

Fissai Eleazar, le sopracciglia aggrottate per la confusione. Scudo? In che senso lo stavo bloccando? Non ero sulla difensiva; me ne stavo lì e basta.

«Uno scudo?», ripeté Edward, stupefatto.

«Dai, Edward! Se io non riesco a leggerle la mente, dubito che ci riesca tu. Riesci a sentire i suoi pensieri in questo momento?», chiese Eleazar.

«No», mormorò Edward, «ma non ci sono mai riuscito. Nemmeno quand'era umana».

«Mai?». Eleazar batté le palpebre. «Interessante. Lascerebbe supporre un notevole talento invisibile, se si manifestava così chiaramente già prima della trasformazione. Non riesco a trovare un varco nello scudo per farmi un'idea più precisa. Eppure dev'essere ancora grezza, ha appena pochi mesi di vita come vampira». Lo sguardo che lanciò a Edward era quasi esasperato. «E a quanto pare non se ne rende affatto conto, è una cosa del tutto inconscia. Che ironia. Aro mi ha spedito ai quattro angoli del pianeta in cerca di gente che possedesse simili particolarità, mentre tu ti ci imbatti per caso e nemmeno te ne accorgi». Eleazar scosse la testa incredulo.

Mi rabbuiai. «Di cosa stai parlando? In che senso, sono uno scudo? Cosa significa?». Tutto quello che riuscivo a immaginare sentendo quel termine era un'assurda armatura medievale.

Eleazar inclinò la testa di lato e mi studiò. «Immagino che nella guardia fossimo un po' troppo formali al proposito. In effetti, classificare talenti è una faccenda soggettiva e, tutto sommato, casuale. Ogni talento è unico e irripetibile, nel senso che non si presenta mai identico. Tu invece, Bella, sei facile da classificare: i talenti puramente difensivi, che tutelano alcuni aspetti di colui che li possiede, sono sempre definiti scudi. Hai messo alla prova le tue capacità? Hai mai provato a bloccare qualcun altro oltre a me e al tuo compagno?».

Nonostante la velocità d'elaborazione del mio nuovo cervello, mi occorsero alcuni secondi per mettere insieme una risposta.

«Funziona solo per certe cose», dissi. «La mia mente è, come dire... privata. Però non impedisce a Jasper di influenzare il mio umore o ad Alice di vedere il mio futuro».

«Una difesa prettamente psichica». Eleazar annuì fra sé. «Limitata, ma efficace».

«Aro non riusciva a sentirla», intervenne Edward. «Sebbene fosse umana, quando si sono conosciuti».

Eleazar sgranò gli occhi.

«Jane ha cercato di colpirmi, ma non c'è riuscita», aggiunsi. «Secondo Edward, Demetri non può trovarmi, e nemmeno Alec può farmi alcunché. È un bene?».

Eleazar, ancora a bocca aperta, annuì. «Direi!».

«Uno scudo!», esclamò Edward, trasudando soddisfazione. «Non avevo mai considerato la cosa sotto questo punto di vista. L'unica che avevo conosciuto prima era Renata, ma lei era così diversa».

Eleazar intanto si era ripreso. «Appunto. Nessun talento si manifesta esattamente allo stesso modo, perché nessuno pensa mai esattamente allo stesso modo».

«Chi è Renata? Cosa fa?», chiesi. Anche Renesmee, interessata, si era scostata da Carmen per guardare oltre Kate.

«Renata è la guardia del corpo di Aro», spiegò Eleazar. «Uno scudo molto pratico e anche molto forte».

Ricordavo vagamente un manipolo di vampiri, maschi e femmine, che non perdevano mai di vista Aro nella sua macabra torre, ma non riuscivo a far riemergere alcun viso femminile dall'inquietante nebbia della memoria. Fra loro, comunque, doveva esserci Renata.

«Chissà...», esordì Eleazar come se stesse riflettendo ad alta voce. «Renata è uno scudo potente contro gli attacchi fisici. Chiunque si avvicini a lei o ad Aro - ed è la stessa cosa, dato che lei è sempre al suo fianco nelle situazioni critiche - si trova improvvisamente... deviato. Il campo di forza che l'avvolge è quasi impercettibile: ci si accorge di colpo di muoversi in un'altra direzione, con la vaga consapevolezza che non è quella giusta, ma senza ricordarsi bene perché. Renata può proiettare lo scudo a diversi metri di distanza da sé: infatti, in caso di necessità, protegge anche Caius e Marcus. Però la sua priorità è Aro. Tuttavia, ciò che fa non è prettamente fisico. Come per la stragrande maggioranza dei doni, avviene tutto nella mente. Se cercasse di deviare te, per esempio, mi chiedo chi avrebbe la meglio...». Scosse la testa. «Non ho mai sentito di qualcuno che riuscisse a mettere fuori gioco Aro o Jane».

«Mamma, tu sei speciale», mi disse Renesmee, per nulla sorpresa, come se stesse commentando il colore del mio vestito.

Ero disorientata. Non conoscevo forse già il mio dono, il super-autocontrollo che mi aveva permesso di saltare a piè pari l'orribile primo anno da vampira? E i vampiri possedevano non più di una qualità extra, no?

A meno che Edward non avesse ragione sin dall'inizio: quando Carlisle aveva avanzato l'ipotesi che il mio autocontrollo potesse avere del soprannaturale, Edward aveva suggerito che la mia capacità di contenermi era solo frutto di una buona preparazione - carattere e concentrazione, aveva detto.

Chi dei due aveva ragione? Potevo fare di più? C'erano una definizione e una categoria per indicare ciò che ero?

«Puoi proiettarlo?», chiese Kate interessata.

«Cioè?», chiesi.

«Estenderlo da te a qualcun altro».

«Non lo so. Non ho mai provato. Non immaginavo di averne bisogno».

«Oh, forse non ne sei capace», tagliò corto Kate. «Io ci provo da secoli e tutto quello che sono riuscita a ottenere è una specie di corrente a fior di pelle».

La fissai, sconcertata.

«Kate possiede un'abilità offensiva», spiegò Edward. «Un po' come Jane».

Distolsi automaticamente lo sguardo da Kate, battendo le palpebre, e lei rise.

«Però non sono così sadica», mi rassicurò. «È solo una cosa che torna utile in battaglia».

Stavo cominciando a digerire le parole di Kate, a creare collegamenti. Fare scudo a qualcun altro oltre a te. Come se esistesse un modo per portare un'altra persona al riparo della bizzarra barriera mentale che rendeva muti i miei pensieri.

Rividi Edward accasciarsi sulle pietre antiche della torre dei Volturi. Era un ricordo umano, ma più vivido e intenso degli altri, come fosse impresso a fuoco nel tessuto cerebrale.

E se fossi stata in grado di impedire che accadesse di nuovo? Se avessi potuto proteggere Edward? E Renesmee? Ci fosse stata anche solo una vaghissima possibilità...

«Devi insegnarmi come fare!», esclamai, afferrando il braccio di Kate senza rendermene conto. «Devi farmi vedere!».

Kate trasalì. «Forse, se eviti di maciullarmi il radio...».

«Oh, scusami!», esclamai.

«Lo scudo è attivo, a quanto vedo», disse Kate. «La mia reazione avrebbe dovuto farti saltar via il braccio, ma non hai sentito niente, vero?».

«Non ce n'era bisogno, Kate. Non voleva farti male», mormorò Edward, ma noi due non gli prestavamo attenzione.

«No, niente. Hai scatenato la tua... corrente elettrica?».

«Sì. Mmm. Non ho mai incontrato nessuno che non la percepisse, mortale o immortale».

«Hai detto che la proietti? Sulla pelle?».

Kate annuì. «Prima l'avevo solo nel palmo delle mani. Come Aro».

«O Renesmee», puntualizzò Edward.

«Adesso, dopo una lunga pratica, riesco a irradiarla in tutto il corpo. È una buona difesa. Chiunque tenti di toccarmi cade a terra fulminato. Solo per pochi secondi, ma sono più che sufficienti».

L'ascoltavo solo con un orecchio, la mia mente stava già lavorando all'idea che, forse, se solo avessi imparato abbastanza alla svelta, sarei stata in grado di proteggere la mia piccola famiglia. Dentro di me speravo ardentemente di essere in grado di proiettare il mio scudo con la stessa abilità con cui riuscivo, per qualche misterioso motivo, a cavarmela alla grande come vampira. La mia vita da umana non mi aveva abituata a doti spontanee particolari e mi era difficile credere che questa mia abilità durasse.

Mi sembrava di non aver mai desiderato niente con tanta intensità, prima di allora: proteggere ciò che amavo.

Ero così immersa nei miei pensieri che mi accorsi della silenziosa comunicazione fra Edward ed Eleazar solo quando divenne aperta conversazione.

«Ricordi almeno un'eccezione?», chiese Edward.

Lo guardai per cercare di contestualizzare la sua domanda e mi resi conto che tutti gli altri li stavano già fissando. Chini l'uno sull'altro, erano concentratissimi, il volto di Edward un grumo di sospetto, quello di Eleazar una maschera d'infelicità e riluttanza.

«Non mi va di considerarle tali», disse Eleazar fra i denti. L'improvviso cambiamento d'atmosfera mi stupì.

«Se hai ragione...», riprese Eleazar.

Edward lo interruppe. «Era un pensiero tuo, non mio».

«Se ho ragione... non riesco nemmeno a concepirne la portata. Cambierebbe completamente il mondo che abbiamo creato. Il significato della mia vita. Ciò di cui finora ho fatto parte».

«Hai sempre agito con le migliori intenzioni, Eleazar».

«Avrebbe una qualche importanza ciò che ho fatto? Tutte le vite che...».

Tanya gli posò una mano sulla spalla in un gesto di conforto. «Cosa ci siamo persi, amico mio? Voglio saperlo per partecipare alla discussione. Non hai mai fatto nulla per cui tu debba punirti a questo modo».

«Davvero?», mormorò Eleazar. Poi sfilò la spalla da sotto la mano di Tanya e riprese a camminare avanti e indietro, ancora più furioso di prima.

Dopo averlo osservato per mezzo secondo, Tanya si rivolse a Edward. «Spiegaci».

Edward annuì, lo sguardo teso e fisso su Eleazar. «Cercava di capire perché i Volturi dovrebbero venire a punirci così numerosi. Non è nel loro stile. Certo, il nostro è il clan maturo più nutrito con cui abbiano avuto a che fare, ma in passato già altre congreghe si sono coalizzate a scopo difensivo e nonostante il numero non hanno mai rappresentato un problema. Noi siamo più uniti, questo sì, ma non tanto numerosi.

Per questo Eleazar si è messo a passare in rassegna le altre occasioni in cui qualche clan è stato punito, per un motivo o per l'altro, e ha scoperto un certo modus operandi, una costante che il resto della guardia non avrebbe mai notato, perché soltanto Eleazar riferiva personalmente ad Aro. La costante si ripete una volta ogni cent'anni, o giù di lì».

«E in cosa consisterebbe?», chiese Carmen, anche lei con lo sguardo fisso su Eleazar.

«Non capita spesso che Aro prenda parte a una spedizione punitiva», disse Edward. «In passato, però, quando voleva qualcosa in particolare, chissà come saltava sempre fuori che questo o quel clan aveva commesso un crimine imperdonabile. In quel caso gli anziani si aggregavano alla guardia per presenziare all'amministrazione della giustizia. Poi, una volta distrutto il clan, Aro concedeva il perdono a un superstite che, a suo dire, si mostrava particolarmente pentito. Guarda caso, si trattava sempre del vampiro in possesso del dono che interessava ad Aro. Al nuovo arrivato veniva assegnato un posto nel corpo di guardia, il che ovviamente lo colmava d'orgoglio; infatti, l'offerta veniva sempre accettata con somma gratitudine, senza eccezioni».

«Immagino che sia esaltante essere scelti per entrare a far parte della guardia», osservò Kate.

«Ah!», ringhiò Eleazar senza fermarsi.

«C'è una tale Chelsea, nella guardia», riprese Edward per spiegare la reazione rabbiosa di Eleazar, «che riesce a influire sui legami emotivi fra le persone. Può rafforzarli o indebolirli. Può fare in modo che qualcuno si senta legato ai Volturi, che desideri appartenere a loro e compiacerli...».

Eleazar si arrestò di colpo. «Era a tutti evidente l'importanza di Chelsea. Riuscire a spezzare le alleanze, in caso di scontro, significava avere la meglio con maggior facilità. E separare emotivamente i membri innocenti di un clan dai colpevoli significava fare giustizia senza inutili violenze: i colpevoli potevano essere puniti senza interferenze e gli innocenti risparmiati. Se Chelsea non avesse spezzato i legami che tenevano unito il clan, sarebbe stato impossibile impedire loro di combattere come un sol uomo. All'epoca mi sembrava un atto di grande magnanimità da parte di Aro. Sospettavo che Chelsea contribuisse a tenerci più uniti di quanto non saremmo stati altrimenti, ma anche quella mi pareva una buona cosa. Aumentava la nostra efficacia. Rendeva la coesistenza più facile».

Le sue parole mi chiarirono vecchi ricordi. Non avevo mai capito, infatti, come mai il corpo di guardia obbedisse con tanta solerzia, quasi con devozione, ai propri comandanti.

«Quant'è forte il suo dono?», chiese Tanya con voce tagliente. Passò velocemente lo sguardo sui membri della sua famiglia.

Eleazar si strinse nelle spalle. «Io sono riuscito ad andarmene insieme a Carmen», disse e poi scosse la testa. «Ma qualunque legame meno intenso di quello fra partner è a rischio. In un clan normale, perlomeno, perché nella nostra famiglia i legami sono più forti. L'astensione dal sangue umano ci ha reso più civili, ci ha consentito di formare autentici legami d'amore. Dubito che Chelsea riuscirebbe a spezzarli, Tanya».

Tanya annuì, apparentemente rassicurata, mentre Eleazar procedeva nell'analisi.

«Perciò, ai miei occhi, l'unico motivo per cui Aro ha deciso di venire di persona è che non si tratta di una punizione, bensì di un'acquisizione». Poi continuò: «Deve essere presente per tenere sotto controllo gli eventi, ma ha bisogno della guardia al completo per proteggersi da un clan così grande e dotato. In tal modo, però, gli altri anziani resterebbero a Volterra indifesi, alla mercé di qualcuno che potrebbe approfittarne. Quindi si spostano tutti. In quale altra maniera Aro si assicurerebbe i doni su cui ha messo gli occhi? Deve desiderarli parecchio», concluse Eleazar come se riflettesse fra sé.

La voce di Edward fu lieve come un sospiro. «Da quel che ho potuto vedere dei suoi pensieri, la primavera passata, Aro non desidera altro che Alice».

Avvertii la mia bocca spalancarsi al ricordo delle immagini da incubo che mi avevano assalito tanto tempo prima: Edward e Alice con addosso una tunica nera, gli occhi rosso sangue e il volto freddo e lontano, vicini come ombre, la mano di Aro sulle loro... Possibile che Alice avesse visto quelle immagini più di recente? Che avesse visto Chelsea mentre tentava di distruggere il suo amore per noi e legarla ad Aro, Caius e Marcus?

«Per questo Alice se n'è andata?», domandai. La mia voce s'incrinò nel pronunciare il suo nome.

Edward mi accarezzò la guancia. «Credo di sì. Per impedire ad Aro di ottenere la cosa che desidera di più al mondo. Per impedire che metta le mani sul suo potere».

Udii Tanya e Kate mormorare qualcosa con voce alterata e ricordai che loro non sapevano di Alice.

«Aro vuole anche te», sussurrai.

Edward fece spallucce, l'espressione improvvisamente troppo composta. «Ma non con la stessa intensità. Non ho nulla di più da dargli di quanto già non abbia. E naturalmente, deve prima trovare un modo per piegarmi al suo volere. Mi conosce e sa quanto sia improbabile», concluse sardonico, inarcando un sopracciglio.

Eleazar s'incupì di fronte al fare disinvolto di Edward. «Conosce anche i tuoi punti deboli», disse guardandomi.

«Non è una cosa di cui valga la pena discutere ora», si affrettò a replicare Edward.

Eleazar ignorò il tentativo di sviare il discorso e proseguì. «Probabile che Aro voglia anche la tua compagna. Deve essere rimasto affascinato da un talento in grado di tenergli testa nientemeno che in forma umana».

L'argomento metteva a disagio sia me che Edward. Se Aro voleva che facessi qualcosa - qualunque cosa -, gli bastava minacciarlo, e avrei ceduto. E viceversa.

Forse la morte era il minore dei mali? Era la cattura ciò che dovevamo temere di più?

Edward cambiò tema. «Credo che i Volturi stessero aspettando solo di avere un pretesto. Non sapevano che scusa avrebbero trovato, ma il piano era già predisposto. Ecco perché Alice ha visto la loro decisione prima che trovassero un appiglio in Irina. Era già tutto stabilito, mancava soltanto una giustificazione valida».

«Se i Volturi stanno abusando della fiducia che tutti gli immortali ripongono in loro...», mormorò Carmen.

«Ha qualche importanza?», chiese Eleazar. «Chi ci crederebbe? Se anche qualcuno si convincesse che i Volturi approfittano del proprio potere, che differenza farebbe? Nessuno è in grado di tenergli testa».

«Eppure alcuni di noi, a quanto pare, sono così pazzi da volerci provare», sussurrò Kate.

Edward scosse la testa. «Siete qui soltanto come testimoni, Kate. Qualunque cosa voglia Aro, non credo che, per ottenerla, sia disposto a macchiare la reputazione dei Volturi. Se riusciamo a smontare le sue accuse, dovrà lasciarci in pace».

«Naturalmente», mormorò Tanya.

Nessuno sembrava convinto. Per pochi interminabili minuti ci fu solo il silenzio.

Poi sentii il rumore di pneumatici che svoltavano dalla strada principale sullo sterrato che portava a casa Cullen.

«Oh merda, Charlie!», borbottai. «Forse il clan di Denali potrebbe attendere al piano di sopra finché...».

«No», m'interruppe Edward con una voce che sembrava provenire da molto lontano. Aveva lo sguardo vuoto e lo teneva fisso sulla porta. «Non è tuo padre». Mi mise a fuoco. «Sono Peter e Charlotte. A quanto pare Alice è riuscita a convincerli. Prepariamoci al secondo turno».

32

La compagnia

Ormai l'enorme casa dei Cullen conteneva più ospiti di quanti sembrava poter alloggiare. La situazione era gestibile soltanto perché nessuno dei nuovi arrivati aveva bisogno di dormire. I pasti erano rischiosi, però. La nostra compagnia collaborava al meglio. Gli ospiti stavano alla larga da Forks e da La Push e cacciavano solo al di là dei confini dello Stato; Edward era un padrone di casa impeccabile e, senza battere ciglio, prestava le sue automobili a chi ne aveva bisogno. Quel compromesso mi metteva molto a disagio, anche se cercavo di ripetermi che, tanto, sarebbero comunque andati a caccia, da qualche parte nel mondo.

Jacob ne era ancora più sconvolto. I licantropi esistevano proprio allo scopo di evitare perdite di vite umane, ed ecco che si doveva passar sopra al dilagare degli assassinii appena fuori dai confini territoriali del loro branco. Ma date le circostanze, con Renesmee in grave pericolo, tenne la bocca chiusa e guardò in cagnesco il pavimento invece dei vampiri.

Ero stupita della facilità con cui i vampiri in visita tolleravano Jacob: i problemi che Edward aveva previsto non si erano mai concretizzati. Jacob sembrava più o meno invisibile ai loro occhi: non proprio una persona vera, ma nemmeno una potenziale fonte di cibo. Lo trattavano come la gente che non ama le bestie tratta gli animali domestici dei propri amici.

Leah, Seth, Quil ed Embry si erano temporaneamente ricongiunti al branco di Sam e Jacob sarebbe stato felice di unirsi a loro, se fosse riuscito a sopportare la lontananza da Renesmee, impegnata nella conquista dello strano gruppo di amici di Carlisle.

Avevamo ripetuto la scena della presentazione di Renesmee al clan di Denali almeno cinque volte. Prima per Peter e Charlotte, che Alice e Jasper ci avevano mandato senza fornire loro alcun chiarimento: come la maggior parte delle persone che conoscevano Alice, si erano fidati delle sue istruzioni nonostante la mancanza di ragguagli. Alice non aveva raccontato nulla sulla direzione verso cui lei e Jasper avrebbero proseguito il loro viaggio. E non aveva fatto alcuna promessa di rivederli in futuro.

Né Peter né Charlotte avevano mai visto un bambino immortale. Anche se conoscevano la regola, la loro prima reazione negativa non fu decisa come quella del clan di Denali. La curiosità li aveva portati ad accettare la "spiegazione" di Renesmee. Punto. E si erano impegnati a fare da testimoni né più né meno della famiglia di Tanya.

Carlisle aveva convocato amici anche dall'Irlanda, i primi ad arrivare, e dall'Egitto.

Il clan irlandese fu incredibilmente facile da convincere. Il loro capo era Siobhan, una donna imponente con un corpo enorme, bello e affascinante nelle sue movenze sinuose, ma lei e Liam, il suo compagno dal volto severo, erano abituati da parecchio a fidarsi del giudizio dell'ultimo acquisto del loro clan. La piccola Maggie, dagli esuberanti riccioli rossi, non possedeva un fisico massiccio come loro, ma aveva il dono di capire quando qualcuno le mentiva, perciò i suoi verdetti non venivano mai messi in discussione. Maggie decretò che Edward aveva detto la verità, quindi Siobhan e Liam accettarono completamente la nostra versione prima ancora di toccare Renesmee.

Amun e gli altri vampiri egizi furono un altro paio di maniche. Persino dopo che due membri del suo clan, Benjamin e Tia, erano stati convinti dalla spiegazione di Renesmee, Amun si rifiutò di toccarla e ordinò ai suoi di levare le tende. Benjamin, un vampiro stranamente cordiale che sembrava poco più che un ragazzo e aveva un'aria sicura e maldestra al tempo stesso, convinse Amun a restare con l'astuzia, minacciandolo di sciogliere il loro sodalizio. Amun rimase, ma continuò a rifiutarsi di toccare Renesmee e non permise neanche a Kebi, la sua compagna, di sfiorarla. Sembrava una combriccola davvero male assortita, anche se gli egizi si assomigliavano a tal punto, con quei capelli corvini dai riflessi blu e il pallore della loro pelle olivastra, da sembrare una vera famiglia. Amun era il membro più anziano e il capo dichiarato. Kebi non si allontanava mai da lui più della lunghezza della sua ombra, e non la udii mai profferire parola. Tia, la compagna di Benjamin, era a sua volta una donna silenziosa, però, quando parlava, faceva sempre discorsi profondissimi e risolutivi. Eppure sembrava che tutti ruotassero intorno a Benjamin, come se possedesse un magnetismo invisibile da cui dipendeva l'equilibrio degli altri. Vidi Eleazar fissare il ragazzo a occhi spalancati e concludere che il potere di Benjamin doveva essere quello di attrarre a sé le altre persone.

«Non esattamente», mi disse Edward quella sera quando restammo soli. «È dotato di un dono così unico che Amun vive nel terrore di perderlo. Un po' come noi, che avevamo progettato di non far sapere ad Aro dell'esistenza di Renesmee», disse con un sospiro, «Amun ha cercato di nascondere Benjamin ai suoi occhi. Amun ha creato Benjamin sapendo già che sarebbe stato speciale».

«Cosa sa fare?».

«Qualcosa che Eleazar non ha mai visto. Qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare. Qualcosa davanti alla quale persino il tuo scudo sarebbe impotente». Sfoderò il suo sorriso sghembo. «È in grado di influenzare gli elementi atmosferici: la terra, l'aria, l'acqua e il fuoco. Si tratta di vera manipolazione in senso fisico, non di illusioni mentali. Benjamin sta ancora collaudando la sua facoltà e Amun cerca di trasformarlo in un'arma. Ma vedrai con i tuoi occhi quanto Benjamin sia indipendente. Non permetterà di farsi usare».

«Ti è simpatico», dedussi dal tono della sua voce.

«Ha un forte senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Mi piace il suo modo di vedere».

Il modo di vedere di Amun divergeva di parecchio e lui e Kebi se ne restavano per conto proprio, anche se Benjamin e Tia si avviavano a diventare grandi amici sia del clan di Denali che di quello irlandese. Noi speravamo che il ritorno di Carlisle contribuisse a stemperare le tensioni con Amun.

Emmett e Rose ci avevano mandato persone isolate: tutti gli amici nomadi di Carlisle che erano riusciti a rintracciare.

Fra i primi arrivò Garrett, un vampiro alto, slanciato, con occhi bramosi color rubino e lunghi capelli biondi che teneva raccolti in un laccetto di pelle, e si capì subito che era un avventuriero. Supposi che, solo per il gusto di mettersi alla prova, avrebbe accettato qualsiasi sfida gli avremmo proposto. Cominciò presto a frequentare le sorelle di Denali e a fare domande infinite sul loro insolito stile di vita. Mi chiesi se intendesse adottare il credo vegetariano come sua prossima sfida, tanto per vedere se era in grado di mantenervi fede.

Arrivarono anche Mary e Randall, che erano già amici, anche se non viaggiavano insieme. Ascoltarono la storia di Renesmee e, proprio come gli altri, rimasero a fare da testimoni. Come il clan di Denali, si chiesero in che modo avrebbero reagito se i Volturi non si fossero fermati ad ascoltare le spiegazioni. Tutti e tre i nomadi si trastullavano con l'idea di prendere le nostre parti.

Naturalmente, man mano che arrivavano i vampiri Jacob diventava sempre più scontroso. Si teneva a distanza se poteva ma, quando non ci riusciva, si lamentava con Renesmee che avrebbero dovuto fornirgli un elenco, se credevano che sarebbe riuscito a ricordarsi i nomi di tutti i nuovi succhiasangue.

Carlisle ed Esme rientrarono una settimana dopo la loro partenza, seguiti a distanza di pochi giorni da Emmett e Rosalie, e quando furono a casa ci sentimmo tutti meglio. Carlisle portò con sé un altro amico, anche se forse amico non era la parola giusta. Alistair era un vampiro inglese misantropo, che riteneva Carlisle il suo conoscente più intimo, anche se sopportava a malapena una visita più di una volta ogni cent'anni. Alistair preferiva di gran lunga vagabondare per proprio conto e Carlisle gli aveva promesso ogni sorta di favori pur di trascinarlo fin da noi. Respingeva ogni compagnia ed era chiaro che non aveva alcun ammiratore in questa congrega.

Il cupo vampiro bruno prese in parola Carlisle sulle origini di Renesmee, rifiutandosi, come Amun, di toccarla. Edward disse a Carlisle, a Esme e a me che Alistair aveva paura di trovarsi fra noi, e ancora più paura di non sapere come sarebbe andata a finire. Nutriva profondi sospetti verso qualsiasi autorità, e quindi anche nei confronti dei Volturi. Ciò che stava accadendo sembrava confermare tutti i suoi timori.

«Ovvio, ora sapranno che sono stato qui», lo sentimmo mugugnare fra sé in soffitta, il suo posto preferito per andare a tenere il broncio. «A questo punto non ha nessun senso nasconderlo ad Aro. Per colpa di questa faccenda mi toccherà darmi alla macchia per secoli e secoli. Metteranno sulla lista nera chiunque abbia parlato con Carlisle nell'ultimo decennio. Come diavolo ho fatto a farmi trascinare in questo pasticcio? Bel modo di trattare gli amici!».

Ma se aveva ragione sul fatto di dover scappare dai Volturi, quantomeno aveva più speranze di riuscirci rispetto a noi. Alistair era un segugio, sebbene non preciso ed efficiente quanto Demetri. A lui capitava di sentire soltanto un'attrazione fuggevole verso l'oggetto delle sue ricerche, però sufficiente a dirgli in quale direzione correre: quella opposta rispetto a Demetri.

Poi arrivò un'altra coppia di amiche: inattese, perché né Carlisle né Rosalie erano riusciti a mettersi in contatto con le amazzoni.

«Carlisle», lo salutò la più alta delle due donne altissime e ferine, al loro arrivo. Sembrava che qualcuno avesse stirato le membra a entrambe: avevano braccia e gambe lunghe, dita lunghe, lunghe trecce nere e lunghi visi con lunghi nasi. Indossavano solo abiti in pelle: gilet di cuoio e pantaloni aderenti allacciati sui fianchi con legacci di pelle. Non erano solo i loro vestiti eccentrici a farle sembrare selvagge, ma tutto ciò che le riguardava, dagli occhi cremisi e inquieti ai movimenti subitanei e guizzanti. Non avevo mai conosciuto vampiri meno civilizzati.

Ma era stata Alice a mandarle da noi, notizia a dir poco interessante. Perché Alice si trovava in Sudamerica? Solo perché aveva già visto che nessuno sarebbe riuscito a entrare in contatto con le amazzoni?

«Zafrina e Senna! Ma dov'è Kachiri?», chiese Carlisle. «Non vi ho mai visto separate».

«Alice ci ha detto che dovevamo separarci», rispose Zafrina con una voce profonda e roca che ben s'intonava al suo aspetto selvaggio. «È un fastidio stare lontane, ma Alice ci ha garantito che voi avevate bisogno di noi, mentre lei aveva bisogno che Kachiri andasse da un'altra parte. Non ci ha detto altro, se non che era davvero... urgente?». La frase di Zafrina terminò in tono interrogativo e io, i nervi scossi come accadeva a ogni nuova presentazione sebbene ormai avessi già compiuto quell'azione numerose volte, portai Renesmee a incontrarle.

Nonostante il loro aspetto feroce, ascoltarono con molta calma il nostro racconto, poi permisero a Renesmee di dargliene dimostrazione. Restarono molto colpite dalla piccola, proprio come gli altri vampiri, ma vedendo i loro movimenti rapidi e convulsi vicino a lei non riuscivo a fare a meno di preoccuparmi. Senna stava sempre vicina a Zafrina, senza mai parlare, ma non aveva lo stesso rapporto di Kebi con Amun. Kebi sembrava mantenere un atteggiamento di obbedienza, mentre Senna e Zafrina erano più simili a due arti di uno stesso organismo, di cui solo per caso Zafrina fungeva da portavoce.

Quelle informazioni su Alice furono stranamente confortanti. Era evidente che si trovava impegnata in qualche misteriosa missione tutta sua, che l'avrebbe tenuta lontana da qualsiasi cosa Aro avesse in serbo per lei.

Edward era entusiasta della presenza delle amazzoni, perché Zafrina era dotata di un talento enorme, un dono che poteva costituire un'arma molto pericolosa. Non che Edward intendesse chiederle di prendere le nostre parti nello scontro, ma se i Volturi non si fossero fermati vedendo i nostri testimoni, forse un paesaggio diverso sarebbe riuscito a trattenerli.

«È un'illusione molto semplice», mi spiegò Edward quando fu chiaro che, come al solito, non vedevo niente. Zafrina era affascinata e divertita dalla mia immunità, che non le era mai capitato di incontrare prima, e ronzava inquieta intorno a noi mentre Edward mi descriveva quello che mi stavo perdendo. Lo sguardo gli si fece vacuo per un attimo mentre continuava. «Riesce a mostrare ciò che vuole alla maggior parte delle persone: quello e nient'altro. Per esempio, in questo momento mi sembra di trovarmi da solo nel bel mezzo della foresta pluviale. È una visione così nitida che potrei persino crederci, se non fosse che ti sento ancora fra le mie braccia».

Zafrina storse le labbra nella sua versione grossolana di un sorriso. Un secondo dopo, lo sguardo di Edward tornò saldo e lui ricambiò il sorriso.

«Davvero notevole», disse.

Renesmee era affascinata da quel dialogo e si avvicinò impavida a Zafrina.

«Posso vedere?».

«Cosa vuoi vedere?», chiese Zafrina.

«Quello che hai mostrato a papà».

Zafrina annuì e io fissai ansiosa lo sguardo di Renesmee che si perdeva nel vuoto. Ma, un attimo dopo, il viso le si illuminò del suo sorriso smagliante.

«Ancora», ordinò.

Dopo quell'episodio, fu difficilissimo tenere lontana Renesmee da Zafrina e dalle sue belle foto. Io mi preoccupavo, perché ero abbastanza sicura che Zafrina fosse capace di creare pure immagini tutt'altro che piacevoli. Ma attraverso i pensieri di Renesmee riuscivo a vedere anch'io le visioni di Zafrina nitide come nel ricordo di mia figlia, proprio come se fossero vere, e quindi a valutare se fossero appropriate o meno.

Anche se non me ne separavo volentieri, dovevo ammettere che era un bene che Zafrina tenesse impegnata Renesmee. Avevo bisogno di avere le mani libere. Avevo così tanto da apprendere, sia con il corpo che con la mente, e in così poco tempo.

Il mio primo tentativo di imparare a combattere non andò a buon fine.

Edward m'immobilizzò nel giro di due secondi. Ma invece di lasciare che mi liberassi lottando, cosa che ero perfettamente in grado di fare, si allontanò con un fremito. Capii subito che c'era qualcosa di storto: era immobile come una roccia e fissava dall'altra parte del prato su cui ci stavamo allenando.

«Scusami, Bella», disse.

«No, tutto bene», risposi. «Riproviamoci».

«Non posso».

«Come, non puoi? Abbiamo appena cominciato».

Non rispose.

«Senti, lo so che sono una frana, ma non posso migliorare senza il tuo aiuto».

Continuò a tacere. Gli saltai addosso, scherzando. Lui non oppose resistenza e cademmo entrambi a terra. Restò immobile mentre gli premevo le labbra sulla giugulare.

«Ho vinto», annunciai.

Lui socchiuse gli occhi, ma non disse nulla.

«Edward? Cosa c'è che non va? Perché non mi puoi insegnare?».

Passò un minuto prima che lui riaprisse bocca.

«Non riesco proprio a... sopportarlo. Emmett e Rosalie sono bravi quanto me. E Tanya ed Eleazar probabilmente ancora di più. Chiedilo a qualcun altro».

«Non è giusto! Tu sei bravo. Hai già aiutato Jasper, hai combattuto con lui e anche con tutti gli altri. Perché non con me? Cos'ho fatto di male?».

Sospirò, esasperato. Aveva gli occhi scuri, il nero era schiarito solo da qualche rara pagliuzza dorata.

«Guardarti in quel modo, analizzarti come un bersaglio. Vedere tutti i modi in cui potrei ucciderti...». Fece una smorfia. «Rende tutto troppo reale, ai miei occhi. Non abbiamo poi tanto tempo a disposizione, non fa differenza chi sia il tuo insegnante. Chiunque ti può insegnare i fondamenti».

M'imbronciai.

Mi toccò il labbro increspato e sorrise. «E poi non serve. I Volturi si fermeranno. Riusciremo a fargli capire come stanno le cose».

«E se non si fermano? Devo assolutamente imparare».

«Trovati un altro maestro».

Quella non fu la nostra ultima conversazione sull'argomento, ma non riuscii a spostarlo di un centimetro dalla sua decisione.

Emmett fu più che felice di aiutarmi, anche se i suoi insegnamenti mi sembravano molto simili a una vendetta per tutti gli incontri di braccio di ferro persi. Se avessi potuto ancora avere dei lividi, sarei stata viola dalla testa ai piedi. Rose, Tanya ed Eleazar furono tutti molto pazienti e utili. Le loro lezioni mi ricordavano le istruzioni per la lotta impartite agli altri da Jasper il giugno precedente, sebbene quei ricordi fossero confusi e indistinti. Certi ospiti trovavano la mia istruzione molto divertente e alcuni di loro si offrirono persino di dare una mano. Il nomade Garrett si accollò qualche turno, sorprendendomi con la sua bravura di insegnante: interagiva così facilmente con gli altri in generale che mi chiesi perché non avesse mai trovato un clan. Combattei persino con Zafrina una volta, mentre Renesmee assisteva, in braccio a Jacob. Imparai diversi trucchi, ma non le chiesi mai più di aiutarmi. In realtà, anche se Zafrina mi era molto simpatica e sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, quella donna selvaggia mi spaventava a morte.

Imparai molto dai miei insegnanti, ma avevo la sensazione che le mie conoscenze fossero ancora disperatamente inadeguate. Non sapevo quanti secondi sarei durata contro Alec e Jane. Pregavo solo che fosse per il tempo necessario.

Era così difficile. Non c'era niente a cui aggrapparsi, niente di solido su cui lavorare. Sentivo solo il desiderio prepotente di rendermi utile, di riuscire a tenere al sicuro insieme a me Edward, Renesmee e il maggior numero possibile dei miei familiari. Cercavo di spingere al di fuori di me quel mio scudo nebuloso, con successi limitati e sporadici. Era come se stessi lottando per tendere un elastico invisibile, che in un qualsiasi momento poteva trasformarsi, da concreto e tangibile, in fumo impalpabile.

Soltanto Edward era disposto a prestarsi come cavia e riceveva un trauma dopo l'altro da Kate mentre io mi cimentavo inetta con quello che avevo dentro la testa. Lavoravamo per ore e mi sentivo come se avessi dovuto essere ricoperta di sudore per lo sforzo, ma naturalmente il mio corpo perfetto non mi tradiva in quel senso. La stanchezza era solo mentale.

Mi distruggeva il fatto che fosse Edward a dover soffrire, con le mie braccia che lo avvolgevano inutili mentre pativa continuamente per gli attacchi "a bassa intensità" di Kate. Cercavo con tutte le mie forze di spingere il mio scudo intorno a entrambi: a volte ci riuscivo, poi mi scivolava via di nuovo.

Odiavo esercitarmi e avrei tanto voluto che ad aiutarmi ci fosse Zafrina al posto di Kate. In quel caso Edward avrebbe dovuto solo guardare le illusioni indotte da Zafrina finché io non fossi riuscita a impedirgli di vederle. Ma Kate insisteva sul fatto che avevo bisogno di motivazioni più intense, e si riferiva a quanto detestassi l'idea che Edward soffrisse. Stavo cominciando a dubitare dell'affermazione che aveva fatto quando ci eravamo conosciute: che non usava il suo dono in modo sadico. A me sembrava proprio che si divertisse.

«Ehi», disse allegro Edward, cercando di nascondere ogni traccia di tensione dalla voce. Qualsiasi cosa, pur di evitarmi gli allenamenti di lotta. «Sei riuscita a pararlo quasi del tutto, questo. Brava, Bella».

Feci un respiro profondo e cercai di capire cosa fossi riuscita a fare precisamente. Misi alla prova l'elastico, sforzandomi di costringerlo a rimanere solido mentre lo allontanavo da me.

«Di nuovo, Kate», grugnii a denti stretti.

Kate premette il palmo sulla spalla di Edward.

Lui sospirò di sollievo. «Stavolta non ho sentito niente».

Lei alzò un sopracciglio. «Eppure era abbastanza forte».

«Meglio», dissi piccata.

«Tieniti pronta», mi disse lei e si sporse di nuovo verso Edward.

Stavolta lui ebbe un fremito e dai denti gli uscì un sibilo basso.

«Scusa! Scusa! Scusa!», ripetei mordendomi il labbro. Perché non riuscivo a farlo bene?

«Te la stai cavando alla grande, Bella», disse Edward, stringendomi a sé. «È solo da qualche giorno che ci provi e riesci già a proiettare lo scudo ogni tanto. Kate, dille quanto è brava».

Kate storse le labbra. «Non saprei. È ovvio che ha un talento enorme a cui stiamo cominciando appena ad avvicinarci. Può fare di meglio, ne sono sicura. Le mancano solo un po' di stimoli».

La fissai incredula e le labbra mi scoprirono i denti in un riflesso automatico. Come si permetteva di pensare che mi mancassero stimoli, con lei che lanciava scosse elettriche a Edward lì sotto i miei occhi?

Sentivo i mormorii del pubblico sempre più numeroso che si era raccolto intorno a noi mentre mi allenavo: all'inizio erano solo Eleazar, Carmen e Tanya, ma poi si era avvicinato Garrett, seguito da Benjamin e Tia, Siobhan e Maggie, e ora persino Alistair sbirciava da una finestra del secondo piano. Gli spettatori erano d'accordo con Edward: pensavano che me la stessi già cavando egregiamente.

«Kate...», disse Edward in tono ammonitore mentre lei escogitava un'altra sequenza di azioni che ormai aveva già messo in moto. Sfrecciò lungo la curva del fiume fino al punto in cui Zafrina, Senna e Renesmee passeggiavano lentamente, quest'ultima mano nella mano con Zafrina, mentre si scambiavano immagini a vicenda. Jacob le teneva d'occhio da pochi metri di distanza.

«Nessie», disse Kate - i nuovi arrivati avevano imparato subito a usare quel soprannome fastidioso -, «ti piacerebbe venire ad aiutare tua madre?».

«No», quasi ringhiai.

Edward mi rassicurò con un abbraccio. Me lo scrollai di dosso appena in tempo, perché Renesmee stava attraversando il giardino con balzi leggeri per venire da me, seguita a ruota da Kate, Zafrina e Senna.

«Non se ne parla, Kate», sibilai.

Renesmee si sporse verso di me e io allargai le braccia in un gesto automatico. Mi si rannicchiò addosso, premendo la testolina nell'incavo sotto la mia spalla.

«Ma, mamma, io voglio davvero aiutarti», disse con tono deciso. Mi cingeva il collo con la mano, sottolineava il suo desiderio con immagini di noi due insieme, come una squadra.

«No», dissi, arretrando rapida. Kate aveva già fatto un passo nella mia direzione, la mano tesa verso di noi.

«Non ti avvicinare, Kate», la misi in guardia.

«No». Cominciò ad avvicinarsi a grandi passi. Sorrideva come un cacciatore che ha intrappolato la sua preda.

Spostai Renesmee in modo che si tenesse aggrappata alla mia schiena, continuando ad arretrare seguendo il ritmo di Kate. Adesso avevo le mani libere e, se lei voleva continuare ad avere due mani attaccate ai polsi, era meglio che girasse al largo.

Probabilmente Kate non capi, perché di suo non aveva mai provato l'affetto profondissimo di una madre per un figlio. Probabilmente non si era accorta di essere andata già ben oltre il consentito. Ero così infuriata che la mia vista assunse una strana sfumatura rossastra e sulla lingua sentivo sapore di metallo bruciato. La potenza che di solito mi sforzavo di frenare scorreva libera nei muscoli ed ero consapevole che avrei potuto annientare Kate e ridurla in pietrisco duro come diamante, se solo mi avesse costretta a farlo.

La rabbia mi aiutò a concentrarmi più intensamente su ogni aspetto del mio essere. Percepivo anche l'elasticità dello scudo con maggior precisione: capii che non era un elastico, ma piuttosto uno strato, una pellicola sottile che mi copriva dalla testa ai piedi. Con la rabbia che mi ribolliva in corpo lo sentivo meglio, ne avevo un controllo più saldo. Me lo stesi attorno, poi lo allungai fino ad avvolgere completamente anche Renesmee, nell'eventualità che Kate fosse riuscita a superare la mia vigilanza.

Kate fece un altro passo avanti ben calcolato e dalla gola mi salì un ringhio feroce che sfilò fra i miei denti serrati.

«Stai attenta, Kate», la mise in guardia Edward.

Kate avanzò ancora, poi sembrò che facesse un errore che anche un'inesperta come me era in grado di riconoscere. Ormai a un passo di distanza, distolse lo sguardo, spostando l'attenzione da me a Edward.

Renesmee era al sicuro sulla mia schiena e io mi raggomitolai, pronta a balzare.

«Senti niente che arriva da Nessie?», gli chiese Kate, con voce calma e rilassata.

Edward sfrecciò nello spazio fra noi, bloccando il mio accesso a Kate.

«No, proprio niente», rispose lui. «Ora allontanati e lascia un po' d'aria a Bella per calmarsi, Kate. Non devi stuzzicarla così. Lo so che sembra più grande, ma è un vampiro solo da qualche mese».

«Non abbiamo tempo per fare le cose con delicatezza, Edward. Dobbiamo costringerla. Restano solo poche settimane e lei ha tutte le potenzialità per...».

«Arretra un attimo, Kate».

Kate fece una smorfia, ma prese l'avvertimento di Edward molto più sul serio del mio.

Renesmee mi teneva la mano sul collo: stava ricordando l'attacco di Kate, mostrandomi che non aveva intenzione di farmi alcun male e che papà ne era al corrente...

Questo non bastò a placarmi. Continuavo a vedere uno spettro di luce macchiato di rosso cremisi. Ma avevo quasi riacquistato il controllo di me stessa e capivo la saggezza delle parole di Kate. La rabbia mi stava aiutando. Avrei imparato molto più in fretta sotto pressione.

Ciò non significava che mi piacesse.

«Kate», ruggii. Posai una mano sul fianco di Edward. Sentivo ancora il mio scudo come un telo forte e flessibile che avvolgeva me e Renesmee. Lo spinsi oltre, costringendolo intorno a Edward. Il tessuto elastico non mostrava difetti né rischi di cedimento. Ansimavo per lo sforzo e le parole mi uscivano deboli anziché rabbiose. «Rifacciamolo», dissi a Kate. «Però tocca solo Edward».

Lei alzò gli occhi al cielo, ma avanzò rapida e premette il palmo della mano sulla spalla di Edward.

«Non sento niente», disse lui. Nella voce gli udivo la sfumatura di un sorriso.

«E ora?», chiese Kate.

«Ancora niente».

«E ora?». Stavolta nella voce di Kate si avvertiva una forte tensione.

«Ancora niente».

Kate grugnì e si allontanò.

«Vedi questo?», chiese Zafrina con la sua voce profonda e selvaggia, fissandoci intensamente tutti e tre. Parlava inglese con uno strano accento, le parole salivano di tono in punti insoliti.

«Non vedo niente di strano», disse Edward.

«E tu, Renesmee?», chiese Zafrina.

Renesmee le sorrise e scosse il capo.

La mia rabbia si era quasi dissolta e serravo i denti, ansimando più forte mentre spingevo lo scudo verso l'esterno: più a lungo lo reggevo, più mi sembrava pesante. Si ritirò, trascinandosi verso l'interno.

«Niente paura», disse Zafrina avvertendo il gruppetto che mi guardava. «Voglio capire quanto riesce a estenderlo».

Tutti emisero un'esclamazione terrorizzata: Eleazar, Carmen, Tanya, Garrett, Benjamin, Tia, Siobhan, Maggie; tutti tranne Senna, che sembrava preparata all'azione successiva di Zafrina, quale che fosse. Gli altri avevano lo sguardo vacuo e l'espressione ansiosa.

«Alzate la mano quando vi ritorna la vista», li istruì Zafrina. «Ora, Bella, vedi un po' quante persone riesci a riparare con lo scudo».

Il fiato mi uscì con uno sbuffo. A parte Edward e Renesmee, Kate era la persona più vicina, però si trovava ad almeno tre metri di distanza. Serrai la mascella e spinsi, cercando di estendere quella difesa resistente ed elastica. Centimetro per centimetro la spinsi verso Kate, lottando contro la reazione che scattava a ogni minimo avanzamento. Mentre ero all'opera cercai di guardare solo l'espressione ansiosa di Kate ed emisi un lieve suono di sollievo quando batté le palpebre e mise a fuoco lo sguardo. Alzò la mano.

«Affascinante!», sussurrò Edward. «Come uno specchio unidirezionale. Posso leggere tutto quello che pensano, ma qui dietro sono irraggiungibile. E sento Renesmee, mentre da fuori non ci riuscivo. Immagino che Kate potrebbe mandarmi una scarica elettrica adesso, perché anche lei è sotto l'ombrello. Però continuo a non sentire te... mmm. Come funziona? Chissà se...».

Continuò a borbottare fra sé, ma non ce la facevo a prestare attenzione alle parole. Digrignai i denti cercando di estendere lo scudo fino a Garrett, che era il più vicino a Kate. Lui alzò la mano.

«Ottimo», si congratulò Zafrina. «Ora...».

Aveva parlato troppo presto: un secco rantolo e sentii il mio scudo schizzare all'indietro come un elastico troppo tirato, che torna di scatto alla sua forma originale. Renesmee, che sperimentò per la prima volta la cecità che Zafrina aveva scagliato sugli altri, tremava sulla mia schiena. Lottai stancamente contro la forza elastica, spingendo lo scudo in modo che tornasse ad avvolgerla.

«Mi date un minuto di pausa?», chiesi ansante. Da quando ero diventata una vampira, non mi era mai capitato che avessi bisogno di riposare. Era snervante sentirsi al tempo stesso così svuotata e così forte.

«Certo», disse Zafrina e gli spettatori si rilassarono appena restituì loro la vista.

«Kate», gridò Garrett mentre gli altri si allontanavano un poco mormorando, infastiditi da quel momento di cecità: i vampiri non erano abituati a sentirsi vulnerabili. Garrett, alto e con i capelli biondo rossicci, era l'unico immortale privo di doni che sembrava attratto dalle mie sedute di allenamento. Mi chiedevo cosa potesse affascinare quell'avventuriero.

«Fossi in te non lo farei, Garrett», lo ammonì Edward.

Garrett proseguì in direzione di Kate nonostante l'avvertimento, con le labbra corrucciate dai pensieri. «Dicono che sei in grado di stendere un vampiro».

«Sì», confermò lei. Poi, con un sorrisino astuto, gli fece un cenno scherzoso con le dita. «Sei curioso?».

Garrett alzò le spalle. «È una cosa che non ho mai visto. Mi sembra un po' un'esagerazione...».

«Forse», rispose Kate, facendosi improvvisamente seria. «Forse funziona solo con i deboli o i giovani. Non sono sicura. Però tu mi sembri forte. Forse riusciresti a resistere al mio potere». Stese la mano aperta verso di lui a palmo in su: un chiaro invito. Ebbe un fremito delle labbra, e fui abbastanza sicura che la sua gestualità solenne fosse un tentativo di fregarlo.

Garrett rispose alla sfida con un sorriso. Molto fiducioso, le toccò il palmo con l'indice.

Poi, con un rantolo sonoro, le ginocchia gli cedettero e stramazzò all'indietro. Con la testa colpì un pezzo di granito e si sentì un crepitio secco. Era uno spettacolo sconvolgente. I miei istinti inorridivano all'idea di vedere un immortale ridotto in quel modo: era una cosa profondamente incoerente.

«Te l'avevo detto», borbottò Edward fra i denti.

A Garrett tremarono le palpebre per qualche secondo, poi spalancò gli occhi. Alzò lo sguardo verso Kate, che sogghignava compiaciuta, e un sorriso di stupore gli illuminò il volto.

«Perbacco!», esclamò.

«Ti è piaciuto?», chiese lei scettica.

«No, non sono mica pazzo», rispose ridendo, e scosse il capo mentre si rialzava piano fino a mettersi in ginocchio. «Ma di sicuro era qualcosa di speciale!».

«Così si dice in giro».

Edward alzò gli occhi al cielo.

Poi dal giardino anteriore arrivò del trambusto. Sentii Carlisle parlare sopra un brusio di voci sorprese.

«Vi ha mandati Alice?», chiese lui a qualcuno, con voce malferma, vagamente turbato.

Un altro ospite inatteso?

Edward si precipitò in casa e la maggior parte degli altri lo imitò. Io lo seguii più lentamente, con Renesmee ancora appollaiata sulla schiena. Dovevo lasciare a Carlisle il tempo di accogliere il nuovo ospite e preparare anche lui, lei o loro all'idea di ciò che li attendeva.

Presi Renesmee fra le braccia mentre giravo cauta intorno alla casa per entrare dalla porta della cucina, ascoltando ciò che non potevo vedere.

«Non ci ha mandati nessuno», rispose in un sussurro una voce profonda. Mi ricordai subito delle voci antiche di Aro e di Caius e mi bloccai nel bel mezzo della cucina.

Sapevo che il soggiorno era affollato: quasi tutti erano rientrati per vedere i nuovi ospiti, eppure non si sentiva alcun rumore. Solo respiri leggeri, nient'altro.

Carlisle rispose con voce guardinga: «Allora cosa vi porta qui proprio adesso?».

«La gente mormora», rispose una voce diversa, impalpabile quanto la prima. «Abbiamo sentito dire che i Volturi stavano per attaccarvi. Girano voci segretissime sul fatto che non siete soli. Ovviamente le voci sono vere. Avete radunato una brigata notevole».

«Non stiamo sfidando i Volturi», rispose Carlisle con voce tesa. «C'è stato un equivoco, tutto qui. Un equivoco molto grave, certo, ma speriamo di riuscire a chiarirlo. Quelli che vedete sono testimoni. Vogliamo solo che i Volturi ci ascoltino. Non abbiamo...».

«Non ci importa di cosa vi accusano», lo interruppe la prima voce. «Non ci importa se avete infranto la legge».

«E quanto sia madornale la vostra infrazione», s'intromise il secondo.

«Da millecinquecento anni aspettiamo che qualcuno sfidi quella feccia di italiani», disse il primo. «Se c'è la minima possibilità che vengano sconfitti, staremo qui ad assistere».

«Oppure, persino ad aiutarvi a stroncarli», aggiunse il secondo. Parlavano l'uno dopo l'altro in tono sommesso e le voci si assomigliavano talmente tanto che qualcuno con un udito meno sensibile li avrebbe scambiati per un'unica persona. «Se riteniamo che abbiate qualche possibilità di riuscita».

«Bella?», mi chiamò Edward con voce brusca. «Porta qui Renesmee, per favore. Forse dovremo mettere alla prova le affermazioni dei nostri visitatori rumeni».

Mi rincuorava sapere che probabilmente metà dei vampiri nell'altra stanza si sarebbe precipitata a difendere Renesmee se i rumeni avessero avuto una reazione violenta. Non mi piacevano il suono della loro voce e il tono di oscura minaccia delle loro parole. Mentre entravo nella stanza, vidi che non ero l'unica a pensarla così. La maggior parte dei vampiri immobili li fissava con occhi ostili e alcune, cioè Carmen, Tanya, Zafrina e Senna, senza averne l'aria, si erano piazzate in atteggiamento difensivo fra i nuovi arrivati e Renesmee.

I vampiri sulla soglia erano smilzi e bassi al tempo stesso; uno aveva i capelli scuri e l'altro, invece, talmente biondi da sembrare grigio chiaro. La pelle aveva lo stesso aspetto polveroso di quella dei Volturi, anche se, secondo me, un po' meno pronunciato. Non ne ero sicura: dato che avevo visto i Volturi solo con occhi umani, non ero in grado di fare un paragone. Gli occhi penetranti erano di un bordeaux scuro, senza pellicola lattiginosa. Indossavano vestiti neri molto semplici che potevano passare per moderni, ma riprendevano motivi antichi.

Quello scuro di capelli sorrise quando mi vide. «Bene, bene, Carlisle. Hai fatto proprio il briccone, vero?».

«Lei non è affatto quello che credi, Stefan».

«In ogni caso non ce ne importa niente», rispose il biondo. «Proprio come abbiamo detto prima».

«Quindi restate pure a osservare, Vladimir, ma sta' sicuro che non abbiamo in programma di sfidare i Volturi, come abbiamo detto prima».

«Allora ce ne staremo qui con le dita incrociate», iniziò la frase Stefan.

«E speriamo di avere fortuna», finì Vladimir.

Alla fine avevamo radunato diciassette testimoni: gli irlandesi Siobhan, Liam e Maggie; gli egizi Amun, Kebi, Benjamin e Tia; le amazzoni Zafrina e Senna; i rumeni Vladimir e Stefan; e i nomadi Charlotte e Peter, Garrett, Alistair, Mary e Randall, oltre agli undici membri della nostra famiglia. Tanya, Kate, Eleazar e Carmen insistevano perché le considerassimo tali.

A parte i Volturi, si trattava probabilmente della più grande adunata amichevole di vampiri adulti nella storia degli immortali.

Stavamo cominciando a nutrire un po' di speranza. Contagiava persino me. Renesmee aveva attirato dalla propria parte così tanta gente in un tempo così breve. Sarebbe bastato che i Volturi la ascoltassero anche solo per un millisecondo...

Gli ultimi due rumeni superstiti, tutti concentrati sull'acre risentimento per coloro che avevano rovesciato il loro impero millecinquecento anni prima, se la presero con molta calma. Non toccavano Renesmee, ma non le dimostravano alcuna avversione. Sembravano misteriosamente deliziati della nostra alleanza con i licantropi. Mi guardavano esercitare il mio scudo con Zafrina e Kate, osservavano Edward rispondere a domande silenziose, vedevano Benjamin scatenare geyser nel fiume e folate di vento dall'aria immobile con la sola forza del pensiero, e a entrambi brillavano gli occhi per la violenta speranza che i Volturi avessero finalmente trovato pane per i loro denti.

Non speravamo tutti le stesse cose, ma speravamo tutti.

33

Il falsario

«Charlie, tutte le informazioni sulla compagnia sono ancora top secret, per motivi di riservatezza. So che è passata più di una settimana da quando hai visto Renesmee, ma in questo momento non è una buona idea venirla a trovare. Che ne dici se porto lei da te?».

Charlie tacque talmente a lungo da farmi temere che avesse percepito la tensione che si nascondeva dietro l'apparenza.

Ma poi borbottò: «Top secret, puah!», e io capii che era solo la sua diffidenza nei riguardi del soprannaturale a rallentarne le reazioni.

«Va bene, piccola», disse Charlie. «La puoi portare stamattina? Sue mi prepara il pranzo. La mia cucina le fa orrore, proprio come a te quando eri appena arrivata».

Charlie rise, poi sospirò ricordando i vecchi tempi.

«Stamattina è perfetto». Prima era, meglio era. Rimandavo già da troppo tempo.

«Jake viene con voi?».

Anche se Charlie non sapeva niente dell'imprinting dei licantropi, era difficile ignorare l'affetto esistente fra Jacob e Renesmee.

«Probabile». Jacob non si sarebbe perso di sua volontà un pomeriggio con Renesmee senza succhiasangue intorno.

«Forse allora dovrei invitare anche Billy», ponderò Charlie. «Ma... mmm. Un'altra volta, magari».

Prestavo solo un orecchio a quanto diceva Charlie: abbastanza da notare la strana esitazione nella sua voce quando nominò Billy, ma non sufficiente perché me ne preoccupassi. Charlie e Billy erano adulti: se avevano dei problemi fra loro, li potevano benissimo risolvere da soli. Io ero già assillata da molte altre incombenze ben più importanti.

«A fra poco», gli dissi e riagganciai.

Il fatto che fossi io a muovermi non serviva soltanto a proteggere mio padre dai ventisette vampiri male assortiti, che avevano tutti giurato di non uccidere nessuno nel raggio di cinquecento chilometri, anche se... non si poteva mai sapere. Ovvio, era meglio che nessun essere umano si avvicinasse al gruppo. Era quella la scusa che avevo fornito a Edward: portavo Renesmee da Charlie in modo che lui non si risolvesse a venire da noi. Era un buon motivo per allontanarmi da casa, ma non era affatto quello vero.

«Perché non possiamo prendere la tua Ferrari?», si lamentò Jacob quando ci trovammo in garage. Ero già salita sulla Volvo di Edward con Renesmee.

Finalmente Edward si era deciso a svelarmi quale sarebbe stata la mia automobile per il "dopo": come aveva sospettato, non ero stata capace di dimostrare l'entusiasmo che meritava. Certo, era bella e veloce, ma a me piaceva correre con le mie gambe.

«Dà troppo nell'occhio», risposi. «Potremmo andare a piedi, però Charlie uscirebbe di testa».

Jacob brontolò ma si sedette davanti. Renesmee si spostò dalle mie ginocchia alle sue.

«Come stai?», gli chiesi mentre uscivo dal garage.

«Come credi che stia?», chiese Jacob sarcastico. «Sono stufo di tutti quei succhiasangue puzzolenti». Vide la mia espressione e parlò prima ancora che potessi rispondergli. «Sì, lo so, lo so. Loro sono i buoni, sono venuti in nostro soccorso, ci salveranno eccetera eccetera. Però, di' pure quello che vuoi, ma io continuo a pensare che Dracula Uno e Dracula Due facciano proprio senso».

Sorrisi mio malgrado. Neanch'io andavo matta per i due ospiti rumeni. «Non posso darti torto».

Renesmee scosse la testa ma non disse nulla: al contrario di noi, trovava che i due rumeni avessero uno strano fascino. Si era sforzata di parlare con loro ad alta voce, dato che non le permettevano di toccarli. Aveva fatto una domanda sulla loro pelle insolita e, anche se avevo temuto che si potessero offendere, ero stata quasi felice che gliel'avesse chiesto. Ne ero curiosa anch'io.

Non erano sembrati particolarmente turbati dal suo interesse. Tutt'al più, un po' addolorati.

«Siamo rimasti seduti immobili per molto tempo, piccolina», le aveva risposto Vladimir, mentre Stefan annuiva senza proseguire le frasi dell'amico come faceva spesso. «A contemplare la nostra divinità. Il fatto che tutto arrivasse fino a noi era un segno del nostro potere. Le prede, i diplomatici, quelli che cercavano di conquistarsi i nostri favori. Stavamo seduti sui nostri troni e ci credevamo dèi. Per molto tempo non ci siamo accorti che stavamo cambiando, ci stavamo quasi pietrificando. Tutto sommato i Volturi ci hanno fatto un grosso favore quando hanno bruciato i nostri castelli. Almeno io e Stefan non abbiamo continuato a pietrificarci. Ora i Volturi hanno gli occhi rivestiti di porcherie polverose, mentre i nostri non ne hanno traccia. Immagino che questo rappresenterà un vantaggio quando glieli caveremo dalle orbite».

Da quel momento cercai di tenerli alla larga da Renesmee.

«Quanto possiamo restare da Charlie?», chiese Jacob, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Era evidente che si stava rilassando mano a mano che ci allontanavamo dalla casa e da tutti i suoi nuovi inquilini. Mi rendeva felice capire che per lui non ero davvero una vampira. Continuavo a essere Bella e basta.

«Per un bel po', a dire la verità».

Il tono della mia voce attirò la sua attenzione.

«Devi combinare qualcos'altro oltre alla visita a tuo padre?».

«Jake, hai presente quanto sei bravo a controllare i pensieri in presenza di Edward?».

Alzò un folto sopracciglio scuro: «Ah sì?».

Annuii, spostando lo sguardo verso Renesmee. Guardava fuori del finestrino e non capivo se le interessasse la nostra conversazione, ma decisi di non arrischiarmi a proseguire.

Jacob aspettò che aggiungessi qualcos'altro, e poi sporse il labbro inferiore mentre rifletteva sul poco che gli avevo detto.

Mentre guidavo in silenzio, strizzavo gli occhi per le fastidiose lenti a contatto, per vedere meglio nella pioggia gelida, anche se non faceva ancora abbastanza freddo perché nevicasse. I miei occhi non erano più mostruosi come all'inizio: erano sicuramente più simili a un arancio rossastro sbiadito che a un cremisi vivace. Presto avrebbero assunto un colore ambrato sufficiente per smettere le lenti a contatto. Speravo che il cambiamento non turbasse troppo Charlie.

Quando arrivammo, Jacob ruminava ancora sulla nostra conversazione interrotta. Procedemmo in silenzio, a velocità da umani, sotto la pioggia.

Mio padre ci aspettava: aveva aperto la porta ancor prima che potessi bussare.

«Ciao, ragazzi! È una vita che non ci vediamo! Ehi, guarda, Nessie! Vieni dal nonno! Mi sa che sei cresciuta più di dieci centimetri. E sei magra, Ness». Mi lanciò un'occhiataccia. «Non ti danno da mangiare lì dentro?».

«È solo la crescita», borbottai. «Ciao, Sue», gridai rivolta verso la cucina, da cui usciva odore di pollo, pomodori, aglio e formaggio; probabilmente per tutti gli altri aveva un profumo ottimo. Percepivo anche tracce di pino fresco e di polvere di imballaggi.

Renesmee fece un sorrisone e apparvero le sue fossette. Non parlava mai davanti a Charlie.

«Cosa ci fate là fuori al freddo, ragazzi? Entrate! Dov'è mio genero?».

«È a casa a ricevere i suoi amici», disse Jacob, poi sbuffò. «Sei troppo fortunato a essere fuori dal giro, Charlie. E non dico altro».

Diedi un pugno a Jacob, piano, sulle reni, mentre Charlie fremeva di disgusto.

«Ahi!», si lamentò Jacob sottovoce; be', se non altro ero convinta di averglielo dato piano, il pugno.

«A dire la verità, Charlie, devo fare alcune commissioni».

Jacob mi scoccò un'occhiataccia, ma non disse nulla.

«Sei indietro con i regali di Natale, Bells? Mancano solo pochi giorni, lo sai».

«Eh già, i regali di Natale», dissi poco convinta. Ecco perché c'era odore di polvere: Charlie doveva aver tirato fuori le vecchie decorazioni.

«Non preoccuparti, Nessie», le sussurrò in un orecchio. «Ci penso io a te, se non ci riesce tua madre».

Lo guardai alzando gli occhi al cielo, ma a dire il vero non avevo pensato per nulla alle festività imminenti.

«È pronto in tavola», chiamò Sue dalla cucina. «Su, venite».

«A dopo, papà», dissi, con una rapida occhiata in direzione di Jacob. Se per caso non fosse riuscito a fare a meno di pensarci quando era vicino a Edward, perlomeno non avrebbe avuto molte informazioni da condividere: non aveva la minima idea di dove mi stessi dirigendo.

Ovviamente, riflettei mentre salivo in macchina, non è che io ne sapessi più di lui.

Le strade erano viscide e buie, ma ormai guidare non mi faceva più paura. I miei riflessi si occupavano piuttosto bene di quel compito e prestavo sì e no attenzione alla strada. Il problema era evitare che la mia velocità attirasse l'attenzione quando c'era gente. Volevo portare a termine la missione, risolvere il mistero in modo da potermi di nuovo dedicare al compito cruciale di apprendere. Apprendere a proteggerne alcuni e a ucciderne altri.

Stavo perfezionando sempre di più lo scudo. Kate non sentiva più il bisogno di motivarmi: non mi era difficile trovare motivi per arrabbiarmi, ora che conoscevo il trucco, perciò mi esercitavo soprattutto con Zafrina. Era contenta della mia estensione: riuscivo a coprire una zona di quasi tre metri per più di un minuto, anche se farlo mi sfiancava. Quella mattina aveva cercato di scoprire se riuscivo a separare lo scudo dalla mia mente. Non capivo l'utilità di quella prova, ma Zafrina pensava che mi avrebbe resa più forte, un po' come allenare anche i muscoli della pancia e della schiena invece delle sole braccia. Alla fine si è capaci di sollevare pesi maggiori quando tutti i muscoli sono più forti.

Non ero bravissima. Avevo visto solo di sfuggita il fiume amazzonico che stava cercando di mostrarmi.

Ma c'erano altri modi di prepararsi a ciò che sarebbe accaduto e con due sole settimane davanti mi preoccupai di aver trascurato il più importante. Quel giorno, però, avrei corretto la svista.

Avevo memorizzato le mappe giuste e non ebbi alcuna difficoltà a localizzare l'indirizzo che in rete non esisteva, quello di J. Jenks. Il passo successivo sarebbe stato cercare Jason Jenks all'altro indirizzo, quello che non mi aveva dato Alice.

Dire che non era un bel quartiere sarebbe stato un eufemismo. L'automobile più anonima fra tutte quelle possedute dai Cullen dava comunque nell'occhio in quella via. Ci sarebbe stato bene il mio vecchio Chevy. Fossi stata ancora umana, avrei chiuso le sicure e sarei fuggita sgommando il più veloce possibile. Adesso, invece, ne ero un po' affascinata. Cercai di immaginarmi Alice in quel posto, per un qualche motivo, ma non ci riuscii.

I palazzi - tutti di tre piani, tutti stretti, tutti leggermente inclinati come se la pioggia battente li avesse piegati - erano soprattutto vecchie case divise in appartamenti multipli. Difficile stabilire di quale colore fosse in origine la vernice scrostata. Tutto si era sbiadito in sfumature di grigio. Alcuni edifici erano occupati da negozi al piano terra: un bar lercio con le vetrine dipinte di nero, un negozio di forniture per sensitivi con mani fosforescenti e carte dei tarocchi che brillavano intermittenti sulla porta, un tatuatore e un asilo con la vetrina tenuta insieme dal nastro isolante. Nei locali non c'erano lampadine, anche se fuori il tempo era brutto a sufficienza da far sì che gli umani avessero bisogno di luce. Sentivo borbottare piano qualche voce distante: sembrava un televisore.

In giro c'era un po' di gente, due persone che arrancavano sotto la pioggia in direzioni opposte e un'altra seduta sulla bassa veranda di uno studio legale da due soldi, tutto sbarrato con assi: leggeva un giornale bagnato e fischiettava. Quel suono era troppo allegro per l'ambiente.

Ero talmente sconcertata dal tizio che fischiava spensierato, da non accorgermi sulle prime che l'edificio abbandonato era il punto preciso in cui avrebbe dovuto trovarsi l'indirizzo che stavo cercando. Sul palazzo in rovina non c'erano numeri civici, ma il tatuatore lì di fianco era a soli due numeri di differenza.

Mi accostai al marciapiede e rimasi lì col motore al minimo per un po'. Sarei entrata in quel buco in un modo o nell'altro, ma come ci potevo riuscire senza farmi notare dal tipo che fischiettava? Magari parcheggiando nella strada parallela ed entrando dal retro... Ma forse da quel lato avrei trovato ancora più testimoni. Forse dai tetti? Era abbastanza buio per fare una cosa del genere?

«Ehi, signora», mi chiamò il tizio che fischiettava.

Abbassai il finestrino dal lato del passeggero, come se non l'avessi sentito.

Il tizio mise da parte il giornale e restai sorpresa, ora che vedevo i suoi abiti. Sotto lo spolverino lungo e stracciato, era vestito un po' troppo bene. Non c'era vento che mi portasse l'odore ma, a giudicare dalla lucentezza, la camicia rosso scuro sembrava di seta. I capelli neri e ricci erano arruffati e in disordine, ma la pelle scura era liscia e perfetta, e i denti bianchi e dritti. Una contraddizione.

«Mi sa che non è il massimo lasciare lì la macchina, signora», disse. «Potrebbe non ritrovarla quando torna».

«Grazie dell'informazione», risposi.

Spensi il motore e scesi dall'auto. Forse il mio amico che fischiettava poteva darmi le risposte di cui avevo bisogno in modo molto più pratico che non scassinando quella casa. Aprii il mio grande ombrello grigio, anche se non m'importava più di tanto di proteggere il vestito di cachemire. Feci quello che avrebbe fatto un essere umano.

Il tipo socchiuse gli occhi per vedermi in faccia dietro la pioggia, poi li sgranò. Deglutì, e sentii il battito del suo cuore accelerare mentre mi avvicinavo.

«Sto cercando una persona», cominciai.

«Io sono una persona», disse sorridendo. «Cosa posso fare per te, bellezza?».

«Per caso sei J. Jenks?», chiesi.

«Oh», disse e la sua espressione passò dall'attesa alla comprensione. Si alzò in piedi e mi studiò con gli occhi socchiusi. «Perché cerchi J.?».

«Questi sono affari miei». E poi non ne avevo la minima idea. «Ma sei tu J.?».

«No».

Restammo così a lungo, mentre lui percorreva con lo sguardo vivace l'abito aderente color grigio perla che indossavo. Finalmente arrivò con gli occhi all'altezza del mio viso. «Non sembri una dei suoi soliti clienti».

«Sì, probabilmente sono insolita», confessai, «ma devo davvero vederlo al più presto».

«Non so cosa posso fare», ammise lui a sua volta.

«Perché non mi dici come ti chiami?».

Sorrise, sarcastico. «Max».

«Piacere, Max. E adesso perché non mi spieghi cosa intendi con quel soliti?».

Il sorriso si trasformò in una smorfia. «Be', i clienti soliti di J. non ti assomigliano per niente. La gente come te non viene nell'ufficio qui in centro. Normalmente andate dritti nel suo ufficio di lusso nel grattacielo».

Ripetei l'altro indirizzo che avevo, recitando l'elenco di numeri in tono interrogativo.

«Sì, è lì», rispose, di nuovo sospettoso. «Perché non ci sei andata direttamente?».

«Mi hanno dato questo indirizzo. Era una fonte molto affidabile».

«Se tu non stessi combinando qualche guaio, non saresti qui».

Increspai le labbra. Non ero mai stata troppo brava a bluffare, ma Alice non mi aveva lasciato molte alternative. «Forse sto combinando qualche guaio».

Max fece un'espressione contrita. «Senti, signora...».

«Bella».

«Va bene, Bella. Senti, questo lavoro mi serve. J. mi paga piuttosto bene per starmene qua a fare poco o niente tutto il giorno. Voglio aiutarti, davvero, però... E naturalmente parlo da un punto di vista del tutto ipotetico, giusto? O in via ufficiosa, o come preferisci, ma se lo metto in contatto con qualcuno che può farlo finire nei pasticci, io ho chiuso. Capisci il mio problema, vero?».

Ci riflettei per un attimo, mordendomi il labbro. «Mai visto qualcuno che mi somiglia, da queste parti? Be', che m'assomiglia solo un pochino. Mia sorella è molto più bassa di me, e ha i capelli neri arruffati».

«J. conosce tua sorella?».

«Credo di sì».

Max rimuginò su quell'informazione per un attimo. Gli sorrisi e rimase senza fiato. «Senti un po' cosa ho pensato di fare: adesso chiamo J. e gli faccio la tua descrizione. E poi decide lui».

Ma cosa sapeva J. Jenks? La mia descrizione gli avrebbe fatto venire in mente qualcosa? Era un pensiero inquietante.

«Di cognome faccio Cullen», dissi a Max, e mi chiesi se per caso non gli stessi dando troppe informazioni. Cominciavo ad arrabbiarmi con Alice. Dovevo proprio andare così alla cieca? Avrebbe potuto dirmi qualcosa in più...

«Cullen, ho capito».

Lo osservai mentre componeva il numero, che riuscii a leggere facilmente. Almeno, se non funzionava così, potevo telefonare direttamente io a J. Jenks.

«Ehi J., sono Max. So che devo chiamarti a questo numero solo in caso di emergenza...».

C'è un'emergenza?, sentii pronunciare debolmente all'altro capo della cornetta.

«Be', non proprio. C'è una ragazza che vuole vederti...».

Non capisco che emergenza c'è. Perché non hai seguito la procedura normale?

«Non l'ho seguita perché lei non mi sembra affatto normale...».

Non sarà mica uno sbirro?!

«No...».

Non si sa mai. Sembra uno degli uomini di Kubarev...?

«No... fammi parlare, va bene? Dice che conosci sua sorella, o qualcosa del genere».

Improbabile. Lei com'è?

«È...». Mi squadrò dalla testa ai piedi con uno sguardo elogiativo. «Be', sembra una top model, che cavolo, ecco com'è». Sorrisi e lui mi fece l'occhiolino, poi proseguì. «Corpo da urlo, pallida come un lenzuolo, capelli castano scuro lunghi fino alla vita, ha l'aria di aver bisogno di una bella dormita... ti ricorda qualcuno?».

Niente affatto. Non mi fa piacere che, a causa del tuo debole per le belle donne, tu abbia interrotto...

«Sì, va bene, mi piacciono le ragazze carine, e allora? Che male c'è? Mi spiace di averti disturbato, bello. Lasciamo perdere».

«Il nome», bisbigliai.

«Ah, giusto. Aspetta», disse Max. «Dice che si chiama Bella Cullen. Ti ricorda qualcosa?».

Per un attimo calò un silenzio tombale, poi la voce all'altro capo della cornetta di botto si mise a gridare, usando una serie di vocaboli degni di un'area di servizio per camionisti. Max cambiò completamente espressione: l'aria scherzosa sparì del tutto e le labbra impallidirono.

«Non te l'ho detto perché non me l'hai chiesto!», gli rispose Max urlando, in preda al panico.

Ci fu un'altra pausa, durante la quale J. si ricompose.

Carina e pallida?, chiese J., ora un po' più calmo.

«Te l'avevo detto, no?».

Carina e pallida? Che ne sapeva quell'uomo dei vampiri? Era uno dei nostri? Non ero pronta a un confronto di quel tipo. In quale guaio mi aveva cacciata Alice?

Max aspettò un minuto mentre subiva un'altra scarica di insulti e istruzioni gridati a gran voce, poi mi guardò con un'espressione quasi spaventata. «Ma il giovedì incontri solo i clienti del centro... Va bene, va bene! Mi ci metto subito». Chiuse il cellulare.

«Vuole vedermi?», chiesi allegra.

Max mi guardò in cagnesco. «Potevi dirmi che eri una cliente con la precedenza».

«Non sapevo di esserlo».

«Credevo fossi uno sbirro», mi confessò. «Cioè, non è che lo sembri. Ma ti comporti in modo strano, seducente».

Feci spallucce.

«Sei del cartello dei narcos?», tirò a indovinare.

«Chi, io?», chiesi.

«Sì. O il tuo ragazzo, o chi ti pare».

«No, mi dispiace. La droga non esalta me e nemmeno mio marito. Se la conosci la eviti, eccetera eccetera, hai presente?».

Max imprecò sottovoce. «Sposata. Mi sa che non ho proprio nessuna chance».

Sorrisi.

«Sei della mafia?».

«Nooo!».

«Traffico di diamanti?».

«Smettila! È questa la gente con cui hai a che fare di solito, Max? Forse è il caso che ti trovi un altro lavoro».

Dovevo ammettere che un po' mi stavo divertendo. Non avevo ancora interagito con molti umani, a parte Charlie e Sue. Era divertente vederlo in difficoltà. Ero anche soddisfatta di quanto mi riuscisse facile non ucciderlo.

«Devi essere dentro a qualcosa di grosso. E di pericoloso», disse fra sé.

«Non proprio».

«Dicono tutti così. Ma a chi servono i documenti, se no? Chi può permettersi di pagare i prezzi a cui li vende J.? Forse questa è la domanda giusta, ma comunque non sono affari miei», disse, poi borbottò di nuovo: «Sposata».

Mi diede un ulteriore indirizzo, del tutto nuovo, con indicazioni sommarie, poi, con uno sguardo sospettoso e amareggiato, mi osservò mentre mi allontanavo.

A quel punto ero pronta ad aspettarmi qualsiasi cosa: già immaginavo un covo ad alta tecnologia come quello dei cattivi di James Bond. E quindi pensai che Max doveva avermi dato l'indirizzo sbagliato per mettermi alla prova. O forse il covo era sotterraneo, sotto un banalissimo centro commerciale, annidato sul fianco della collina boscosa in un bel quartiere residenziale.

Parcheggiai nella prima piazzola libera e alzai lo sguardo verso un cartello molto elegante con la scritta «JASON SCOTT, PROCURATORE LEGALE».

All'interno l'ufficio era beige con tonalità verde sedano, inoffensivo e irrilevante. Non si sentiva odore di vampiro e questo mi aiutò a rilassarmi. Solo aromi di umani sconosciuti. Nel muro era installato un acquario e dietro alla scrivania sedeva una segretaria bionda, bella quanto insipida.

«Salve», mi salutò. «Cosa posso fare per lei?».

«Devo vedere il signor Scott».

«Ha un appuntamento?».

«Non proprio».

Sfoderò un sorrisetto affettato. «Allora potrebbe volerci un bel po'. Perché non si siede, intanto che...».

April!, strillò perentoria una voce maschile dal telefono sulla sua scrivania. Fra poco deve arrivare una certa signora Cullen.

Sorrisi e indicai la mia persona.

La faccia entrare subito da me. Ha capito? Non importa se m'interrompe.

Nella sua voce sentivo altre sfumature oltre all'impazienza. Stress. Nervosismo.

«È proprio qui», disse April, appena lui la lasciò parlare.

Come? La faccia entrare! Cosa sta aspettando?

«Subito, signor Scott!». Si alzò in piedi, agitando le mani mentre mi faceva strada lungo un breve corridoio e mi offriva caffè, tè o qualsiasi altra cosa desiderassi.

«Prego», disse, e mi fece entrare in un ufficio da dirigente, con tanto di scrivania in legno massiccio e diplomi alle pareti.

«Si chiuda la porta alle spalle», ordinò la stridula voce tenorile.

Studiai l'uomo dietro la scrivania, mentre April si ritirava in fretta. Era basso e stempiato, sui cinquantacinque anni e panciuto. Portava una cravatta di seta rossa con una camicia a righe bianche e azzurre, e il blazer blu era appeso allo schienale della poltrona. E poi tremava, era così pallido da aver assunto un malsano colorito giallastro, con la fronte imperlata di sudore: m'immaginai la sua ulcera che ribolliva sotto il salvagente di lardo.

J. si ricompose e si alzò malfermo dalla sedia. Mi porse la mano sopra la scrivania.

«Signora Cullen. È davvero un piacere».

Gli andai incontro e gli strinsi la mano rapidamente, una volta sola. Rabbrividì leggermente al contatto della mia pelle fredda, ma non parve particolarmente sorpreso.

«Signor Jenks. O preferisce che la chiami Scott?».

Fece un'altra smorfia. «Come desidera, naturalmente».

«Che ne dice se lei mi chiama Bella e io la chiamo J.?».

«Come vecchi amici», accettò lui, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di seta. Mi fece cenno di sedermi e fece altrettanto. «Devo proprio chiederglielo: sto facendo conoscenza, finalmente, con l'adorabile moglie del signor Jasper?».

Soppesai l'informazione per un secondo. E così quell'uomo conosceva Jasper, non Alice. Lo conosceva, e aveva anche l'aria di temerlo. «Con la cognata, a dire il vero».

Increspò le labbra, come se cercasse disperatamente un senso a tutta la faccenda, proprio come lo cercavo io.

«Il signor Jasper sta bene, immagino?», chiese, cauto.

«Gode di ottima salute. Al momento si è preso una lunga vacanza».

L'affermazione sembrò chiarire un po' la confusione di J., che annuì fra sé e giunse le mani. «Per l'appunto. Avrebbe dovuto venire nel mio ufficio principale. Le segretarie l'avrebbero condotta direttamente da me, facendole evitare canali meno ospitali».

Annuii e basta. Chissà perché Alice mi aveva dato quell'indirizzo nel ghetto.

«Be', comunque, ora è qui. Cosa posso fare per lei?».

«Documenti», dissi, cercando di avere la voce di una che sapeva il fatto suo.

«Ma certo», accettò subito J. «Parliamo di certificati di nascita, di morte, patenti, passaporti, tessere sanitarie...?».

Inspirai profondamente e sorrisi. Avevo un grosso debito con Max.

Poi il sorriso svanì. Alice mi aveva mandata qui per un motivo ed ero sicura che fosse per proteggere Renesmee. L'ultimo dono che mi faceva. L'unica cosa di cui era certa che avrei avuto bisogno.

La sola eventualità per cui Renesmee poteva avere bisogno di un falsario era quella di una fuga. E l'unica eventualità che l'avrebbe costretta alla fuga era la nostra sconfitta.

Se insieme a lei fossimo fuggiti anche io ed Edward, i documenti non le sarebbero occorsi subito. Ero certa che Edward sapesse come procurarsi una carta di identità, o che addirittura fosse capace di fabbricarla, ed ero certa che conoscesse qualche modo per fuggire anche senza. Potevamo scappare con lei per migliaia di chilometri. Potevamo attraversare l'oceano a nuoto con lei.

A patto di essere nei paraggi per salvarla.

E la segretezza serviva a tenere la cosa al di fuori della memoria di Edward, perché c'erano buone possibilità che Aro venisse a conoscenza di ciò che lui sapeva. Se avessimo perso, prima di distruggere Edward, avrebbe sicuramente ottenuto le informazioni che tanto bramava.

Proprio come avevo sospettato. Non avremmo mai potuto vincere. Ma dovevamo tentare con ogni mezzo di uccidere Demetri prima di perdere, lasciando a Renesmee la possibilità di fuggire.

Mi sentivo il cuore immobile e pesante come una pietra nel petto: un peso che mi annientava. Tutte le mie speranze erano svanite come nebbia al sole. Gli occhi mi bruciavano.

A chi avrei potuto accollare una situazione del genere? A Charlie? Troppo umano e indifeso. E come avrei fatto a portargli Renesmee? Non si sarebbe certo trovato nelle vicinanze dello scontro. Restava solo una persona. In realtà era sempre stata l'unica.

Avevo fatto quelle riflessioni così in fretta che J. non si era accorto della mia pausa.

«Due certificati di nascita, due passaporti, una patente», dissi con voce bassa e nervosa.

Se si era accorto che avevo cambiato espressione, non lo diede a vedere.

«A nome di chi?».

«Jacob... Wolfe. E... Vanessa Wolfe». Nessie sembrava un soprannome accettabile per una che si chiamava Vanessa. E Jacob si sarebbe divertito un sacco con la storia di Wolfe.

Scrisse rapido su un bloc notes giallo. «E i secondi nomi?».

«Si inventi lei qualcosa di generico».

«Come preferisce. Le età?».

«L'uomo ha ventisette anni, la bambina cinque». Jacob poteva benissimo passare per un venticinquenne: era un bestione. E, a giudicare dalla velocità con cui cresceva Renesmee, era meglio fare una stima per eccesso. Avrebbero potuto scambiare Jacob per il suo patrigno...

«Se preferisce dei documenti completi, mi servono le foto», disse J., interrompendo le mie riflessioni. «Di solito il signor Jasper li finiva personalmente».

Ecco perché J. non sapeva che faccia avesse Alice.

«Aspetti un attimo», dissi.

Era un colpo di fortuna. Nel portafoglio tenevo varie foto di famiglia, e quella perfetta - Jacob che abbracciava Renesmee sotto il portico davanti a casa - aveva solo un mese. Alice me l'aveva data appena qualche giorno prima... O forse, dopotutto, non era questione di fortuna. Alice sapeva che avevo quella foto. Forse aveva anche ricevuto qualche vaga premonizione del fatto che ne avrei avuto bisogno, prima di darmela.

«Ecco».

J. studiò la foto per un attimo. «Sua figlia le somiglia molto».

M'irrigidii. «Somiglia di più a suo padre».

«Che non è quest'uomo». Toccò il viso di Jacob.

Strinsi gli occhi e sulla fronte di J. spuntarono nuove perle di sudore.

«No. È un carissimo amico di famiglia».

«Scusi», borbottò e ricominciò a scrivere. «Quando le servono i documenti?».

«Ce la fa in una settimana?».

«È un ordine urgente. Costerà il doppio... anzi no, scusi. Mi sono dimenticato che stavo parlando con lei».

Conosceva Jasper, ovviamente.

«Mi dica la cifra».

Sembrava avere qualche esitazione a pronunciarla a voce alta e tuttavia ero sicura che, avendo già avuto a che fare con Jasper, sapesse che il prezzo non era un problema. Senza neanche considerare i conti strapieni di soldi intestati in vario modo ai Cullen in tutto il mondo, in casa c'era abbastanza denaro da mantenere a galla una piccola nazione per dieci anni: era un po' come Charlie, che in fondo a ogni cassetto teneva centinaia di ami da pesca. Secondo me, nessuno si sarebbe accorto delle mazzette che avevo prelevato quel giorno per sbrigare la commissione.

J. scrisse il prezzo in fondo al bloc notes.

Annuii, calmissima. Avevo portato con me ben più di quanto servisse. Aprii di nuovo la borsetta e contai il denaro; lo avevo diviso in mazzette da cinquemila dollari con alcuni fermagli, quindi ci impiegai poco.

«Ecco».

«Ah, Bella, non occorre che mi dia subito tutta la somma. Di solito il cliente ne conserva la metà per garantirsi la consegna».

Sorrisi languidamente a quell'uomo nervoso. «Ma io mi fido di lei, J. E poi, le darò un bonus: la stessa cifra appena ricevo i documenti».

«Le assicuro che non è necessario».

«Non si preoccupi». Non potevo tenere tutti quei soldi con me. «Ci vediamo qui la settimana prossima alla stessa ora?».

Mi guardò con aria sofferente. «A dire il vero, preferisco svolgere certe transazioni in luoghi che non abbiano a che fare con il mio impiego abituale».

«Capisco. So già che non mi sto comportando come lei si aspettava».

«Sono abituato a non avere aspettative quando si tratta della famiglia Cullen». Fece una smorfia e si ricompose rapidamente. «Vediamoci alle otto fra una settimana al Pacifico, va bene? Si trova sul lago Union e si mangia divinamente».

«Perfetto». Ma non avrei certo cenato con lui. Non credo avrebbe gradito molto se l'avessi fatto.

Mi alzai e gli strinsi di nuovo la mano. Stavolta non batté ciglio. Ma sembrava avere una nuova preoccupazione in testa. Aveva la bocca serrata e la schiena tesa.

«Avrà grossi problemi a rispettare la scadenza?», gli chiesi.

«Come?». Alzò lo sguardo, preso alla sprovvista dalla mia domanda. «La scadenza? Oh, no. Non si preoccupi. Le farò avere i documenti in tempo, di sicuro».

Sarebbe stato bello che ci fosse Edward, per conoscere le vere preoccupazioni di J. Sospirai. Era già abbastanza brutto dover tenere segreto qualcosa a Edward, ma stargli lontana era quasi insopportabile.

«Ci vediamo fra una settimana, allora».

34

Dichiarazioni

Mi accorsi della musica prima di uscire dall'auto. Edward non toccava il pianoforte dalla sera della partenza di Alice. Mentre chiudevo la portiera, sentii la canzone passare a un inciso e trasformarsi nella mia ninna nanna. Edward mi stava dando il bentornato.

Lentamente presi Renesmee, che dormiva come un sasso dopo che eravamo stati via tutto il giorno, per portarla fuori dell'auto. Avevamo lasciato Jacob da Charlie: diceva che si sarebbe fatto dare un passaggio da Sue. Mi chiedevo se stesse cercando di riempirsi la testa di pettegolezzi sufficienti a scacciare l'immagine dell'espressione che avevo sul viso entrando in casa di Charlie.

Mentre avanzavo piano verso casa Cullen, capii che la speranza e l'incoraggiamento morale che formavano un'aura quasi tangibile intorno alla grande villa bianca quella mattina erano appartenute anche a me, eppure adesso me ne sentivo estraniata.

Mi venne di nuovo voglia di piangere ascoltando Edward che suonava per me. Ma cercai di tirarmi su. Non volevo insospettirlo. Non volevo lasciare alcuna traccia per Aro nella sua mente, se possibile.

Quando entrai Edward si girò e sorrise, senza smettere di suonare.

«Bentornata a casa», disse, come se si trattasse di una giornata qualsiasi e nella stanza non si trovasse un'altra decina di vampiri impegnati in varie attività, oltre a un'altra decina sparpagliata in giro. «Ti sei divertita oggi con Charlie?».

«Si. Scusa se sono stata via così tanto. Sono uscita a comprare un po' di regali di Natale per Renesmee. So che non festeggeremo in grande stile, però...». Mi strinsi nelle spalle.

Edward curvò le labbra verso il basso. Smise di suonare e si girò sullo sgabello, in modo che si trovasse con tutto il corpo di fronte a me. Mi posò una mano sulla vita e mi attirò a sé. «Non ci avevo pensato granché. Se vuoi proprio festeggiarlo in grande stile...».

«No», lo interruppi. Trasalii dentro di me all'idea di dover fingere più entusiasmo dello stretto necessario. «Semplicemente, non volevo lasciarlo passare senza farle un regalino».

«Posso vedere?».

«Se vuoi. È una sciocchezza».

Renesmee era profondamente addormentata e sentivo il suo respiro lieve sul mio collo. La invidiavo. Sarebbe stato bello sfuggire alla realtà, anche solo per poche ore.

Pescai attentamente il sacchettino di velluto del gioielliere dalla mia pochette, solo socchiudendola, perché Edward non vedesse i soldi che mi erano rimasti.

«L'ho visto nella vetrina di un antiquario passandoci davanti in macchina».

Gli scrollai il piccolo medaglione d'oro nel palmo della mano. Era rotondo, con incisa una bordura sottile di piante rampicanti.

Edward apri quel meccanismo minuscolo e vi guardò dentro. C'era lo spazio per una piccola foto e, dalla parte opposta, un'iscrizione in francese.

«Sai cosa vuol dire?», mi chiese con un tono diverso, più pacato di prima.

«Il negoziante mi ha detto che significa qualcosa del tipo: "più della mia stessa vita". È così?».

«Sì, è vero».

Alzò verso di me uno sguardo indagatore con gli occhi color topazio. Lo incrociai per un attimo, poi finsi di lasciarmi distrarre dalla televisione.

«Spero che le piaccia», mormorai.

«Certo che le piacerà», disse leggero, con naturalezza, e in quel secondo fui sicura che sapesse che gli stavo nascondendo qualcosa. Ero sicura anche che non avesse la minima idea di che cosa si trattasse.

«Portiamola a casa», suggerì, alzandosi e circondandomi le spalle con un braccio.

Esitai.

«Che c'è?», chiese.

«Volevo allenarmi un po' con Emmett...». Avevo perso tutta la giornata per quella commissione importantissima e mi sentivo in arretrato.

Emmett, che era sul divano con Rose e come sempre teneva il telecomando, alzò lo sguardo e sorrise pregustando quel momento. «Fantastico. Il bosco ha bisogno di una spuntatina».

Edward lanciò un'occhiataccia prima a Emmett, poi a me.

«Avete tutto il tempo di farlo domani», disse.

«Non essere ridicolo», mi lamentai. «Lo sai benissimo che non esiste più il concetto di "tutto il tempo". Non esiste più. Ho molte cose da imparare e...».

M'interruppe. «Domani».

Aveva un'espressione tale che nemmeno Emmett osò discutere.

Mi sorpresi di quanto fosse difficile tornare a una routine che, dopotutto, era nuova di zecca. Ma la perdita dell'ultimo briciolo di speranza che avevo nutrito faceva sembrare tutto impossibile.

Cercai di concentrarmi sugli aspetti positivi. C'erano buone probabilità che mia figlia sopravvivesse a ciò che stava per succedere, e anche Jacob. La certezza che loro due avessero un futuro era già una specie di vittoria, no? Il nostro gruppetto doveva tenere duro, se volevamo dare a Jacob e Renesmee la possibilità di fuggire. Sì, la strategia di Alice aveva senso solo se avessimo tenuto molto impegnato il nemico nello scontro. Anche quella sarebbe stata una piccola vittoria, se si pensava al fatto che da millenni i Volturi non venivano sfidati sul serio.

Non era la fine del mondo, ma solo dei Cullen. La fine di Edward, la mia fine.

Preferivo che fosse così, almeno per quanto riguardava l'ultima parte. Non avrei mai voluto vivere senza Edward: se lui abbandonava questo mondo, l'avrei seguito a ruota.

Ogni tanto mi chiedevo con scarsa convinzione se avremmo trovato qualcosa dall'altra parte. Sapevo che Edward non ci credeva più di tanto, ma Carlisle sì. Io non riuscivo a immaginarlo. D'altro canto, non riuscivo a immaginare che Edward non esistesse da qualche parte, in un modo o nell'altro. Ovunque fosse, se fossimo riusciti a restare insieme, sarebbe stato comunque un lieto fine.

E così continuava la sequenza delle mie giornate, con quel pensiero che le rendeva più difficili di prima.

Il giorno di Natale io, Edward, Renesmee e Jacob andammo a trovare Charlie. C'era tutto il branco di Jacob, oltre a Sam, Emily e Sue. Rincuorava vederli tutti radunati nella stanza, con quei loro corpaccioni tiepidi incuneati negli angoli intorno all'albero di Natale dalle scarse decorazioni - si vedevano i punti precisi in cui Charlie si era annoiato e aveva lasciato perdere - e più alti del mobilio. Si poteva sempre contare sull'esaltazione dei licantropi per una battaglia imminente, anche se era un'impresa suicida. L'elettricità della loro eccitazione trasmetteva una corrente piacevole, che mascherava il mio pessimo umore. Come sempre, Edward era un attore migliore di me.

Renesmee portava il medaglione che le avevo dato all'alba e nella tasca del giubbotto aveva il lettore MP3 che le aveva regalato Edward: un oggettino minuscolo che poteva contenere cinquemila canzoni, già riempito con le preferite di Edward. Al polso sfoggiava un bracciale intrecciato della tribù Quileute, l'equivalente di un anello di fidanzamento. Edward aveva stretto i denti vedendolo, ma la cosa non mi turbava.

Presto, prestissimo l'avrei affidata a Jacob perché la tenesse al sicuro. Come poteva infastidirmi il simbolo dell'impegno su cui facevo tanto affidamento?

Edward aveva salvato la situazione ordinando un regalo anche per Charlie. Era comparso il giorno prima - spedizione prioritaria notturna - e Charlie aveva passato tutta la mattina a leggere il voluminoso manuale di istruzioni per il suo nuovo sistema di pesca con il sonar.

Il pranzo imbandito da Sue doveva essere buono, a giudicare da come i licantropi lo spazzolarono. Mi chiesi come sarebbe sembrato quel nostro raduno agli occhi di un estraneo. Recitavamo abbastanza bene la nostra parte? Uno sconosciuto ci avrebbe creduti un gruppo di amici spensierati, che si godevano la festività in allegria?

Credo che Edward e Jacob fossero sollevati quanto me al momento di andarsene. Sembrava strano sprecare energie per mantenere la nostra apparenza umana quando c'erano altre incombenze molto più importanti di cui occuparsi. Facevo molta fatica a concentrarmi. Ma, al tempo stesso, forse quella era l'ultima volta che avrei visto Charlie. Poteva essere un bene che fossi talmente stordita da non rendermene davvero conto.

Era dal mio matrimonio che non vedevo mia madre, ma pian piano scoprii che dovevo apprezzare la distanza che gradualmente si era creata nei due anni precedenti. Lei era troppo fragile per il mio mondo. Non volevo che ne facesse parte per forza. Charlie era più forte.

Forse ora era persino abbastanza forte per un addio, ma non lo ero io.

In macchina regnava il silenzio; fuori la pioggia era ridotta a una nebbiolina semighiacciata. Renesmee stava in braccio a me e giocava con il medaglione, aprendolo e richiudendolo. La guardavo e immaginavo cosa avrei detto a Jacob in quel momento, se non avessi temuto che le mie parole rimanessero presenti nella memoria di Edward.

Se la situazione ritorna sicura, portala da Charlie. E a lui racconta tutta la storia, un giorno. Digli quanto bene gli volevo, digli che non ho sopportato l'idea di lasciarlo nemmeno dopo che la mia vita da umana era finita. Digli che è stato il padre migliore del mondo. Digli di far sapere a Renée quanto le volessi bene, e che le mando tutti i miei auguri di felicità e fortuna...

Avrei dovuto dare i documenti a Jacob prima che fosse troppo tardi. E gli avrei lasciato anche un biglietto per Charlie. E una lettera per Renesmee. Qualcosa che potesse leggere quando mi sarebbe stato impossibile ripeterle che l'amavo.

Mentre sbucavamo nel prato non notai niente di strano all'esterno di casa Cullen, ma percepii un vago brusio all'interno. Molte voci basse che mormoravano e ringhiavano. Era un suono forte e sembrava un litigio. Distinsi la voce di Carlisle e quella di Amun più frequenti delle altre.

Edward parcheggiò davanti alla casa, invece di fare il giro fino al garage. Ci scambiammo uno sguardo circospetto prima di scendere dall'auto.

Jacob cambiò atteggiamento: sul viso gli si dipinse un'espressione seria e attenta. Evidentemente era entrato nella modalità alfa. Di sicuro era successo qualcosa e intendeva procurarsi le informazioni di cui lui e Sam avevano bisogno.

«Alistair è sparito», mormorò Edward mentre ci precipitavamo su per i gradini.

Dentro il salone, i segni del dissidio in corso erano evidenti. Addossata alle pareti stava una folla di spettatori: tutti i vampiri che si erano uniti a noi, tranne Alistair e i tre coinvolti nel litigio. Esme, Kebi e Tia si mantenevano vicine ai tre vampiri al centro della stanza: Amun sibilava rivolto a Carlisle e Benjamin.

Edward serrò le mascelle e si precipitò a fianco di Esme, trascinandomi per mano. Strinsi forte Renesmee al petto.

«Amun, se vuoi andartene nessuno ti costringe a restare», disse calmo Carlisle.

«Mi stai rubando metà del mio clan, Carlisle!», gridò Amun, tormentando Benjamin con un dito. «Mi avete chiamato qui per questo? Per derubarmi?».

Carlisle sospirò e Benjamin alzò gli occhi al cielo.

«Sì, Carlisle ha litigato con i Volturi e ha messo in pericolo tutta la sua famiglia solo per attirarmi fin qui e uccidermi», disse sarcastico Benjamin. «Cerca di essere ragionevole, Amun. Mi sto solo impegnando a fare la cosa giusta, non sto entrando in un altro clan. Ma tu puoi fare quel che vuoi, naturalmente, come ti ha appena detto Carlisle».

«Non andrà a finire bene», ruggì Amun. «Alistair era l'unico che avesse un minimo di buonsenso qui. Dovremmo fuggire tutti quanti».

«Guarda un po' a chi attribuisci del buonsenso», commentò Tia mormorando fra sé.

«Ci massacreranno tutti!».

«Non ci sarà nessuno scontro», disse Carlisle con voce ferma.

«Questo lo dici tu!».

«Ma, anche in quel caso, puoi sempre cambiare parte, Amun. Sono sicuro che i Volturi gradiranno moltissimo il tuo aiuto».

«Forse è questa la risposta giusta», lo schernì Amun.

La risposta di Carlisle fu dolce e sincera. «Non te ne farei una colpa, Amun. Siamo amici da tanto tempo, ma non ti chiederei mai di morire per me».

Ora anche Amun aveva una voce più controllata. «Però porti il mio Benjamin a morire con te».

Carlisle posò la mano sulla spalla ad Amun, che la scrollò via.

«Resterò, Carlisle, ma la cosa potrebbe volgersi a tuo sfavore. Se si tratterà di sopravvivere, non esiterò a unirmi a loro. Siete pazzi a credere di poter sfidare i Volturi». Si accigliò, poi sospirò, fissò me e Renesmee e aggiunse, in tono esasperato: «Testimonierò che la bambina è cresciuta. È la pura verità. Chiunque può confermarlo».

«Non abbiamo mai chiesto altro».

Amun storse la bocca: «Però rischiate di ottenere anche altro». Si girò verso Benjamin. «Io ti ho dato la vita e tu la stai sprecando».

Il viso di Benjamin era più freddo che mai, un'espressione in forte contrasto con i suoi tratti di adolescente. «Peccato che tu non sia riuscito a sostituire la mia volontà con la tua nel farlo: forse in quel caso saresti stato contento di me», rispose.

Amun socchiuse gli occhi. Fece un gesto brusco a Kebi, poi ci superò a grandi passi e usci dalla porta principale.

«Non se ne va», mi disse piano Edward, «però ora terrà ancor più le distanze. Non stava bluffando quando ha parlato di passare dalla parte dei Volturi».

«Perché Alistair se n'è andato?», domandai in un sussurro.

«Nessuno lo sa con certezza: non ha lasciato messaggi. A giudicare da quello che borbottava di solito, è chiaro che secondo lui lo scontro è inevitabile. Nonostante il suo comportamento, in realtà tiene troppo a Carlisle per schierarsi con i Volturi. Immagino abbia deciso che il pericolo è troppo grande», disse Edward stringendosi nelle spalle.

Anche se la nostra conversazione, chiaramente, si teneva solo fra noi due, era ovvio che tutti la potevano sentire. Eleazar rispose all'osservazione di Edward come fosse destinata a tutti i presenti.

«Dal suono dei suoi mugugni, c'era qualcosa di più. Non abbiamo parlato molto delle intenzioni dei Volturi, ma Alistair temeva che, per quanto possiate dimostrare in modo decisivo la vostra innocenza, non vi ascolteranno. È convinto che cercheranno una scusa per realizzare qui i loro progetti».

I vampiri si scambiarono occhiate inquiete. L'idea che i Volturi manipolassero la loro legge sacrosanta per motivi di opportunismo non era molto amata. Solo i rumeni restavano composti, con i loro sorrisini ironici. Sembravano divertiti del fatto che gli altri insistessero nel pensare tutto il meglio possibile dei loro vecchi nemici.

Cominciarono molte discussioni a bassa voce contemporaneamente, ma io mi concentrai soltanto su quella dei rumeni. Forse perché il biondo Vladimir continuava a lanciare occhiate nella mia direzione.

«Spero tantissimo che Alistair abbia ragione», mormorò Stefan a Vladimir. «Comunque vada a finire, si spargerà la voce. È ora che il nostro mondo veda i Volturi per ciò che sono diventati. Non cadranno mai se tutti credono a quell'assurdità secondo cui proteggono il nostro stile di vita».

«Almeno, quando comandavamo noi, siamo stati onesti su quello che eravamo», rispose Vladimir.

Stefan annuì. «Non ci siamo mai dati una patina di correttezza e non ci siamo mai definiti dei santi».

«Credo sia giunta l'ora di combattere», disse Vladimir. «Non pensi che non troveremo mai una forza migliore con cui allearci? Un'altra occasione così buona?».

«Niente è impossibile. Forse un giorno...».

«Sono ben millecinquecento anni che aspettiamo, Stefan. E in tutto questo tempo loro non hanno fatto altro che rafforzarsi». Vladimir fece una pausa e mi guardò di nuovo. Non mostrò alcuna sorpresa nel vedere che anch'io lo stavo osservando. «Se i Volturi vincono questa contesa, ne usciranno ancora più potenti di prima. Ogni conquista aumenta la loro forza. Pensa a cosa potrebbero semplicemente ricavare da quella neonata», fece un cenno verso di me con il mento, «e sta scoprendo i suoi talenti solo adesso. E poi c'è quello che sposta la terra». Vladimir fece un cenno in direzione di Benjamin, che s'irrigidì. Ormai quasi tutti, come me, stavano origliando i discorsi dei rumeni. «Con i loro gemelli stregati, non hanno nessun bisogno dell'illusionista o del tocco infuocato». Il suo sguardo sfrecciò da Zafrina a Kate.

Stefan guardò Edward. «E non gli serve nemmeno quello che legge nel pensiero. Ma ho capito cosa vuoi dire. In effetti, se vincono guadagneranno davvero molto».

«Più di quanto possiamo concedere loro, non trovi?».

Stefan sospirò. «Temo di dover concordare con te. E ciò significa che...».

«Che dobbiamo schierarci contro di loro finché c'è ancora speranza».

«Se potessimo anche solo neutralizzarli, o smascherarli...».

«Così, un giorno, saranno altri a completare l'opera».

«E l'affronto che abbiamo subito per tutti questi secoli finalmente sarà vendicato».

Si guardarono negli occhi per un attimo e poi mormorarono all'unisono: «Sembra l'unico modo».

«Quindi ci batteremo», disse Stefan.

Malgrado si leggessero in loro il dubbio e il conflitto interiore fra istinto di conservazione e brama di vendetta, il sorriso che si scambiarono fu pieno di attesa.

«Ci batteremo», concordò Vladimir.

Immagino che fosse un bene: come Alistair, ero sicura che fosse impossibile evitare lo scontro. In quel caso, altri due vampiri che si battessero al nostro fianco ci sarebbero stati solo d'aiuto. Tuttavia la decisione dei rumeni mi dava i brividi.

«Ci batteremo anche noi», disse Tia, con la voce grave ancora più solenne del solito. «Secondo noi, i Volturi eccederanno nell'uso della loro autorità. Non abbiamo alcuna intenzione di appartenergli». E con gli occhi indugiò sul suo compagno.

Benjamin sorrise e lanciò uno sguardo ammiccante ai rumeni. «A quanto pare sono una merce molto ricercata. Sembra proprio che mi debba guadagnare il diritto di essere libero».

«Non sarà certo la prima volta che combatto per difendermi dal dominio di un re», disse Garrett in tono canzonatorio. Si avvicinò e diede una pacca sulla schiena a Benjamin. «Evviva la libertà dagli oppressori».

«Noi stiamo con Carlisle», disse Tanya. «E ci battiamo insieme a lui».

La dichiarazione dei rumeni, a quanto pareva, aveva creato negli altri il bisogno di schierarsi a loro volta.

«Noi non abbiamo ancora deciso», disse Peter. Abbassò lo sguardo verso la sua minuscola compagna: Charlotte aveva un'espressione insoddisfatta sulle labbra.

A quanto pareva, una decisione l'aveva già presa. Chissà quale.

«Vale anche per me», disse Randall.

«E per me», aggiunse Mary.

«I nostri branchi si batteranno insieme ai Cullen», disse repentino Jacob. «Non abbiamo paura dei vampiri», aggiunse con un sorrisino.

«Bambini», borbottò Peter.

«Infanti», lo corresse Randall.

Jacob sorrise sarcastico.

«Anch'io ci sto», disse Maggie, scrollandosi di dosso la mano di Siobhan che la tratteneva. «So che la verità è dalla parte di Carlisle. E non posso ignorarlo».

Siobhan fissò il membro più giovane del suo clan con sguardo preoccupato. «Carlisle», disse come se fossero da soli, negando che l'atmosfera di quella riunione fosse stata resa improvvisamente formale dalla serie di dichiarazioni inattese, «non voglio che si arrivi a uno scontro».

«Neanch'io, Siobhan. Sai che è l'ultima cosa che vorrei». Abbozzò un sorriso. «Forse dovresti concentrarti sul mantenimento della pace».

«Sai che non servirà a niente», disse.

Mi ricordai la discussione fra Rose e Carlisle sul capo dei vampiri irlandesi: Carlisle era convinto che Siobhan avesse il dono nascosto, ma potente, di far andare le cose come desiderava, eppure la stessa Siobhan non ci credeva.

«Male non farà», disse Carlisle.

Siobhan alzò gli occhi al cielo. «Devo immaginare il risultato che desidero?», chiese sarcastica.

Ora Carlisle rideva apertamente. «Se non ti dispiace».

«Allora, visto che non ci sarà alcuno scontro, non c'è nessun bisogno che il mio clan si schieri apertamente, no?», ribatté. Appoggiò di nuovo la mano sulla spalla di Maggie, attirandola più vicino a sé. Liam, il compagno di Siobhan, restò in silenzio, impassibile.

Quasi tutti nella sala sembravano spiazzati dallo scambio di battute chiaramente giocoso fra Carlisle e Siobhan, ma i due non si persero in spiegazioni.

E fu così che si conclusero i discorsi impegnativi per quella sera. Il gruppo si sparpagliò gradualmente, alcuni uscendo a caccia, altri per ammazzare il tempo con i libri di Carlisle, la televisione o i computer.

Io, Edward e Renesmee andammo a caccia. Jacob si aggregò.

«Stupide sanguisughe», borbottò fra sé quando uscimmo. «Si credono tanto superiori», sbuffò.

«Ci rimarranno di sasso quando gli infanti salveranno le loro esistenze di esseri superiori, no?», disse Edward.

Jake sorrise e gli diede un pugno sulla spalla. «Ci puoi scommettere!».

Quella non sarebbe stata la nostra ultima battuta di caccia. Ne avremmo fatta un'altra a ridosso del momento in cui ci aspettavamo l'arrivo dei Volturi. Poiché la data dell'ultimatum non era precisa, avevamo in programma di trattenerci per qualche notte all'aperto nella radura grande come un campo da baseball che Alice aveva visto, per precauzione. Sapevamo solo che sarebbero arrivati il giorno in cui la neve avrebbe attecchito al suolo. Non volevamo che i Volturi si avvicinassero troppo alla città e Demetri li avrebbe condotti dovunque ci trovassimo.

Mi chiesi chi avrebbe scelto come obiettivo della propria ricerca e ipotizzai che si trattasse di Edward, dato che non poteva rintracciare me.

Mentre cacciavo, riflettei su Demetri, prestando scarsa attenzione alla mia preda o ai fiocchi di neve vaganti che alla fine erano apparsi, ma che si scioglievano ancor prima di toccare il suolo roccioso. Demetri si sarebbe accorto che non era in grado di individuarmi? Che conclusioni ne avrebbe tratto? E Aro? E se Edward si sbagliava? Magari c'era qualche piccola eccezione a quanto ero in grado di reggere, piccoli modi di aggirare il mio scudo. Tutto ciò che si trovava al di fuori della mia mente era vulnerabile, preda potenziale dei poteri di Jasper, Alice o Benjamin. Forse anche il talento di Demetri funzionava in modo un po' diverso dagli altri.

Poi pensai a una cosa che mi fece bloccare di colpo. L'alce che avevo quasi dissanguato mi sfuggì di mano e cadde sul suolo roccioso. I fiocchi di neve si scioglievano a pochi centimetri dal suo corpo tiepido con minuscoli sfrigolii. Mi fissai le mani insanguinate, con sguardo vacuo.

Edward notò la mia reazione e si affrettò a raggiungermi, senza finire di dissanguare la sua preda.

«Cosa c'è?», chiese sottovoce, passando in rassegna il bosco intorno a noi in cerca di quella che poteva essere la causa del mio scatto.

«Renesmee», dissi con voce soffocata.

«È appena al di là di quegli alberi», mi rassicurò. «Sento i suoi pensieri e quelli di Jacob. Sta benone».

«Non intendevo questo», dissi. «Pensavo al mio scudo: tu credi che valga veramente qualcosa, che ci possa aiutare in qualche modo? So che gli altri sperano che io riesca a riparare sotto lo scudo Zafrina e Benjamin, anche se ce la faccio a mantenerlo attivo solo per qualche secondo alla volta. E se invece ci sbagliassimo? Se la tua fiducia in me fosse la causa della nostra sconfitta?».

La mia voce rasentava l'isteria, anche se avevo mantenuto il controllo sufficiente a parlare piano. Non volevo turbare Renesmee.

«Bella, cosa ti ha scatenato questi pensieri? Naturalmente è meraviglioso che tu possa proteggere te stessa, ma non sei responsabile della salvezza di nessuno. Non ti angosciare inutilmente».

«E se non riuscissi a proteggere nulla?», sussurrai singhiozzando. «Questa cosa che faccio è approssimativa, è incostante! È priva di logica. Forse sarà del tutto inutile contro Alec».

«Sssh», mi zittì. «Non farti prendere dal panico. E non preoccuparti di Alec. Quello che fa non ha niente di diverso da quello che sanno fare Jane o Zafrina. È pura illusione: non riesce a entrare nella tua testa più di quanto ne sia capace io».

«Ma Renesmee ci riesce!», sibilai fra i denti, sconvolta. «Sembrava una cosa talmente naturale che non me lo ero mai chiesto prima. È sempre stata una parte di lei e basta. Ma lei m'infila i suoi pensieri nel cervello proprio come fa con tutti gli altri. Il mio scudo ha delle falle, Edward!».

Lo fissai disperata, aspettando che comprendesse la gravità della mia rivelazione. Aveva le labbra increspate, come se stesse studiando il modo di dire qualcosa. L'espressione era perfettamente rilassata.

«Ci stavi già pensando da un pezzo, vero?», chiesi perentoria, mentre mi sentivo una sciocca per tutti i mesi in cui avevo sottovalutato ciò che era ovvio.

Annuì e all'angolo della bocca gli spuntò un sorriso vago. «Dalla prima volta che ti ha toccata».

Sospirai pensando alla mia stupidità, ma la sua calma mi aveva un po' acquietata. «E la cosa non ti turba? Non la vedi come un problema?».

«Ho due teorie, una più probabile dell'altra».

«Dimmi prima la meno probabile».

«Be', è tua figlia», mi fece notare. «Dal punto di vista genetico, per metà è come te. Ti ho sempre presa in giro per il fatto che la tua mente viaggia su una frequenza diversa dalla nostra. Forse è la stessa che usa lei».

Per me quella tesi non funzionava. «Ma anche tu senti benissimo la sua mente. La sentono tutti. E se per caso anche Alec viaggia su una frequenza diversa? Cosa succederebbe se...?».

Mi chiuse le labbra con un dito. «Ci ho pensato. Per questo penso sia più probabile la seconda teoria».

Strinsi i denti e aspettai.

«Ti ricordi cosa mi ha detto di lei Carlisle, subito dopo che Renesmee ti ha mostrato quel primo ricordo?».

Certo che me lo ricordavo. «Ha detto: "È un interessante capovolgimento. Sembra che faccia esattamente l'opposto di ciò che sai fare tu"».

«Sì. E quindi mi sono chiesto se, per caso, non abbia preso anche il tuo talento e l'abbia ribaltato».

Riflettei un attimo.

«Tu sai bloccare tutti all'esterno», m'imbeccò lui.

«Mentre nessuno è in grado di impedire a lei di entrare?», completai la frase, esitante.

«Questa è la mia teoria», disse. «E se lei sa entrare nella tua mente, dubito che al mondo esista uno scudo in grado di tenerle testa. Questo ci sarà d'aiuto. Da quello che ho visto, nessuno mette in dubbio la verità dei suoi pensieri una volta che le ha permesso di mostrarglieli. E credo che nessuno possa impedirle di mostrarglieli, se si avvicina a sufficienza. Se Aro la lascia spiegare...».

Al pensiero di Renesmee che si avvicinava agli occhi avidi e appannati di Aro, mi vennero i brividi.

«Be'», mi disse, massaggiandomi le spalle contratte, «quantomeno niente può impedirgli di vedere la verità».

«Ma la verità può bastare a fermarlo?», mormorai.

A quello Edward non seppe rispondere.

35

L'ultimatum

«Esci?», mi chiese Edward, con tono noncurante. La sua espressione sembrava forzatamente neutra. Si strinse Renesmee appena un po' più forte al petto.

«Sì, un paio di commissioni dell'ultimo momento...», risposi, altrettanto indifferente.

Sfoderò il mio sorriso preferito. «Torna presto da me».

«Come sempre».

Presi di nuovo la sua Volvo, chiedendomi se avesse letto il contachilometri dopo la mia ultima commissione. Quante tessere del puzzle era riuscito a mettere insieme? Di sicuro sapeva che gli stavo nascondendo un segreto. Aveva dedotto il motivo per cui non glielo potevo confidare? Intuiva che presto Aro avrebbe saputo tutto ciò che lui sapeva? Forse Edward era già arrivato a quella conclusione, il che avrebbe spiegato perché non mi avesse mai chiesto conto di niente. Immaginai che stesse cercando di non rifletterci troppo e di escludere il mio comportamento dai suoi pensieri. Aveva fatto dei collegamenti con il mio strano gesto, la mattina dopo la partenza di Alice, quando avevo bruciato il libro nel camino? Forse non aveva compiuto così tanti progressi.

Era un pomeriggio uggioso, faceva già buio come al crepuscolo. Attraversai veloce quella tetraggine, osservando i nuvoloni carichi. Quella notte avrebbe nevicato abbastanza da attecchire al suolo e creare la scena della visione di Alice? Secondo Edward mancavano altri due giorni. Allora ci saremmo installati nella radura, attirando i Volturi nel posto che avevamo scelto.

Mentre attraversavo la foresta che si rabbuiava, riflettei sul mio ultimo viaggio a Seattle. Forse avevo capito qual era lo scopo di Alice nel mandarmi alla centrale dello spaccio in quel posto decrepito, sede degli appuntamenti di J. Jenks con i suoi clienti più loschi. Se fossi andata in uno degli altri uffici più formali, avrei mai capito cosa dovevo chiedergli? Se l'avessi conosciuto come Jason Jenks o Jason Scott, avvocato con tutti i crismi, avrei mai stanato J. Jenks, fornitore di documenti falsi? Dovevo percorrere la strada per cui fosse evidente che stavo combinando qualcosa di grosso. Era quello il mio indizio.

Faceva già buio pesto quando entrai nel parcheggio del ristorante con qualche minuto di anticipo, ignorando le attenzioni degli inservienti all'ingresso. Indossai le lenti a contatto e andai ad aspettare J. dentro il ristorante. Anche se avevo fretta di risolvere al più presto quell'incombenza deprimente e tornare dalla mia famiglia, J. sembrava molto attento a non contaminarsi con le sue attività più meschine: avevo la sensazione che uno scambio nel parcheggio buio avrebbe urtato la sua sensibilità.

Entrando diedi il cognome Jenks e l'ossequioso maitre mi guidò di sopra, in una saletta privata con un fuoco che crepitava in un caminetto di pietra. Prese lo spolverino a mezza gamba color avorio che portavo per nascondere il fatto che indossavo una tenuta che Alice avrebbe trovato adatta all'occasione e restò a bocca aperta davanti al mio abito da cocktail color écru. Non riuscii a evitare di sentirmi un po' lusingata: non ero ancora abituata a essere ritenuta bella da tutti, oltre che da Edward. Il maitre aveva balbettato mezzi complimenti mentre usciva goffo dalla stanza.

Restai in attesa vicino al fuoco, accostando le dita alla fiamma per scaldarle un po' prima dell'inevitabile stretta di mano. Per quanto J. sospettasse sicuramente che i Cullen avessero qualcosa da nascondere, era comunque una buona abitudine da mantenere.

Per mezzo secondo mi chiesi cosa avrei provato mettendo la mano nel fuoco. Cosa avrei sentito mentre bruciavo...

L'ingresso di J. mi distolse da quei pensieri morbosi. Il maitre prese anche il suo cappotto e risultò evidente che non ero l'unica a essermi vestita elegante per quell'incontro.

«Mi scusi tanto per il ritardo», disse J. appena ci trovammo soli.

«No, è in perfetto orario».

Mi porse la mano e mentre ce la stringevamo sentivo che comunque le sue dita erano molto più calde delle mie. Ma non ne sembrava turbato.

«Se posso permettermi, la trovo splendida, signora Cullen».

«Grazie, J. Per favore, mi chiami Bella».

«Devo dire che trattare con lei è un'esperienza diversa che con il signor Jasper. È molto meno... inquietante». Fece un sorrisino vago.

«Davvero? Ho sempre trovato che la presenza di Jasper abbia un effetto calmante».

Avvicinò le sopracciglia. «Veramente?», mormorò per educazione, anche se era palese che dissentiva. Che strano. Cosa aveva mai fatto Jasper a quell'uomo?

«Conosce Jasper da molto?».

Sospirò e parve a disagio. «Lavoro con il signor Jasper da più di vent'anni, e il mio vecchio socio lo conosceva già da quindici anni... Non cambia mai». J. rabbrividì appena.

«Sì, Jasper è un po' strano da quel punto di vista».

J. scosse il capo come se potesse scrollarsi di dosso quei pensieri fastidiosi. «Vuole sedersi, Bella?».

«A dire il vero ho un po' fretta. La strada fino a casa è lunga». Mentre parlavo estrassi dalla borsa la spessa busta bianca con i soldi in più destinati a lui e gliela porsi.

«Oh», disse con una lieve sfumatura di delusione. S'infilò la busta in una tasca interna della giacca senza fermarsi a controllare l'importo. «Speravo che potessimo dirci due parole».

«A proposito di cosa?», domandai incuriosita.

«Be', si faccia consegnare prima gli oggetti che mi ha chiesto. Voglio essere certo che sia soddisfatta».

Si girò, mise sul tavolo la ventiquattrore e aprì le chiusure a scatto. Ne tirò fuori una busta imbottita in formato protocollo.

Anche se non avevo idea di quello che avrei dovuto ricevere, aprii la busta e diedi un'occhiata sommaria al contenuto. J. aveva girato la foto di Jacob e ne aveva modificato i colori in modo che passaporto e patente non riportassero un'identica immagine. Che a me apparissero perfetti non importava. Per una frazione di secondo osservai la foto sul passaporto di Vanessa Wolfe e poi distolsi rapida lo sguardo, con un groppo che mi saliva in gola.

«Grazie», gli dissi.

Socchiuse un poco gli occhi e capii che il mio esame poco accurato lo aveva deluso. «Le posso assicurare che i pezzi sono perfetti. Supererebbero gli esami più rigorosi degli esperti».

«Ne sono certa. Apprezzo molto quello che ha fatto per me, J.».

«È stato un piacere, Bella. In futuro, mi contatti pure per qualsiasi cosa di cui i Cullen abbiano bisogno». Non lo diceva sul serio, ma la frase sembrava un invito esplicito a prendere il posto di Jasper come contatto.

«Voleva parlarmi di qualcosa?».

«Ehm, sì. È una questione un po' delicata...». M'indicò il focolare con aria interrogativa. Mi sedetti sul bordo in pietra e lui si mise al mio fianco. Aveva di nuovo la fronte ricoperta di sudore; tirò fuori di tasca un fazzoletto di seta azzurra e cominciò a tamponarsela.

«Lei è la sorella della moglie del signor Jasper? O è la moglie di suo fratello?», chiese.

«Sono la moglie di suo fratello», chiarii, chiedendomi dove volesse andare a parare.

«Quindi è sposata con il signor Edward?».

«Sì».

Sorrise imbarazzato. «Vede, ho visto i nomi di tutti parecchie volte. Congratulazioni in ritardo. Mi fa piacere che il signor Edward, dopo tutto questo tempo, abbia trovato una compagna così adorabile».

«La ringrazio molto».

Fece una pausa, tamponandosi il sudore. «Come può immaginare, nel corso degli anni ho sviluppato un discreto livello di rispetto per il signor Jasper e tutta la sua famiglia».

Annuii, cauta.

Lui inspirò profondamente, poi espirò senza parlare.

«J., per favore, vada al sodo».

Prese fiato un'altra volta e poi borbottò in fretta, farfugliando. «Se potesse assicurarmi che non ha intenzione di rapire quella bambina a suo padre, stanotte dormirei molto meglio».

«Oh», dissi sbalordita. Mi bastò un attimo per capire qual era la conclusione sbagliata che aveva tratto. «No, no. Non si tratta affatto di questo». Abbozzai un sorriso, cercando di rassicurarlo. «Sto solo cercando di garantirle un rifugio sicuro nel caso in cui a me e mio marito succeda qualcosa».

Affilò lo sguardo. «E cosa dovrebbe succedere?». Arrossì, poi si scusò. «Ovviamente non sono affari miei».

Osservai il rossore che si diffondeva dietro la superficie delicata della sua pelle e fui felice, come mi capitava spesso, di non essere una normale vampira neonata. J. sembrava un tipo a posto, a parte i reati che perpetrava, e sarebbe stato un peccato ucciderlo.

«Non si può mai sapere». Sospirai.

Si accigliò. «Allora le faccio tanti auguri. E, scusi se la scoccio ancora, ma... se il signor Jasper dovesse venire a chiedermi che nomi ho messo su quei documenti...».

«Naturalmente glieli deve dire subito. Mi farebbe molto piacere che il signor Jasper fosse a conoscenza di tutta la nostra transazione».

Sembrava che il mio sincero desiderio di trasparenza avesse allentato un po' la sua tensione.

«Molto bene», disse. «Non riesco proprio a convincerla a fermarsi per cena?».

«Mi dispiace, J. Al momento ho pochissimo tempo».

«Allora le rinnovo tanti auguri di salute e felicità. E, per favore, si faccia pure viva per qualsiasi necessità della famiglia Cullen, Bella».

«Grazie, J.».

Me ne andai con la mia merce illecita e guardandomi indietro vidi che J. mi seguiva con gli occhi e aveva un'espressione a metà fra l'ansia e il rimpianto.

Il viaggio di ritorno durò molto meno. La notte era nera, così spensi i fari e andai a tavoletta. Quando arrivai a casa, mancava la maggior parte delle auto, comprese la Porsche di Alice e la mia Ferrari. I vampiri tradizionali si erano allontanati il più possibile per saziare la propria sete. Cercai di non pensare a quella caccia notturna e rabbrividii immaginandomi le loro vittime.

Nel salone c'erano solo Kate e Garrett, che discutevano scherzosi sul valore nutritivo del sangue animale. Ne dedussi che Garrett aveva tentato una caccia vegetariana e l'aveva trovata difficile.

Edward doveva aver portato Renesmee a casa, a dormire. Jacob, senza dubbio, era nei boschi vicino alla nostra casetta. Il resto della mia famiglia probabilmente era a caccia. Forse erano fuori insieme agli altri di Denali.

Il che, sostanzialmente, mi lasciava la casa tutta per me e, svelta, ne approfittai.

Dall'odore capii che ero la prima a entrare nella stanza di Alice e Jasper da un bel po', forse dalla notte in cui ci avevano lasciati. Frugai in silenzio nella loro enorme cassapanca finché non trovai la borsa giusta. Doveva essere appartenuta ad Alice: era uno zainetto di cuoio nero, del tipo che di solito si usa come borsetta, abbastanza piccolo da poterlo mettere in spalla a Renesmee senza che desse troppo nell'occhio. Poi depredai il loro fondo cassa, prendendo una cifra equivalente al doppio del reddito annuale di una famiglia americana media. Pensai che lì sarebbe stato più difficile accorgersi del mio furto, dato che quella stanza rattristava tutti. Infilai la busta con i passaporti e le carte d'identità false nella borsa, sopra i soldi. Poi mi sedetti sul bordo del letto di Alice e Jasper e guardai quel pacchetto misero e insignificante, tutto ciò che potevo dare a mia figlia e al mio migliore amico per contribuire a salvare le loro vite. Crollai affranta sulla colonna del baldacchino, sentendomi impotente.

Ma che altro potevo fare?

Restai lì seduta diversi minuti a testa china, prima che mi arrivasse il barlume di una buona idea.

E se...

Se la supposizione della fuga di Jacob e Renesmee si fosse rivelata giusta, ciò avrebbe anche implicato la morte di Demetri. Questo lasciava ai superstiti, compresi Alice e Jasper, un po' di spazio per respirare.

Allora, perché non potevano essere Alice e Jasper ad aiutare Jacob e Renesmee? Se si fossero incontrati, Renesmee avrebbe goduto della migliore protezione possibile. E non c'erano motivi perché questo non succedesse, tranne il fatto che Jake e Renesmee erano entrambi punti ciechi per Alice. Come sarebbe riuscita a trovarli?

Riflettei un attimo, poi uscii dalla stanza, attraversai il corridoio ed entrai nella suite di Carlisle ed Esme. Come al solito la scrivania di Esme era ricoperta di planimetrie e progetti, tutti impilati in alti mucchi ordinati. Sopra il piano di lavoro c'era un casellario; in una delle caselle c'era una scatola di carta da lettere. Presi un foglio bianco e una penna.

Poi fissai la pagina bianca color avorio per cinque minuti buoni, concentrandomi sulla mia decisione. Forse Alice non era in grado di vedere Jacob o Renesmee, ma poteva vedere me. Me la immaginai mentre aveva la visione di quel momento, con la disperata speranza che non fosse troppo impegnata in altro per prestarmi attenzione.

Lentamente, apposta, scrissi le parole «RIO DE JANEIRO» in maiuscolo a tutta pagina.

Rio sembrava il posto migliore dove mandarla. Era lontano da qui e, a quanto risultava dagli ultimi avvistamenti, Alice e Jasper si trovavano già in Sudamerica, d'altronde, non è che i nostri vecchi problemi avessero smesso di esistere solo perché ora avevamo problemi peggiori. Aleggiava ancora il mistero del futuro di Renesmee, il terrore per la sua crescita così veloce. Per cui, comunque, ci saremmo diretti a sud. Ora il compito di cercare l'origine delle leggende sarebbe passato a Jacob, e magari anche ad Alice.

Chinai di nuovo il capo per combattere il repentino bisogno di scoppiare in lacrime e strinsi i denti. Era meglio che Renesmee proseguisse senza di me. Ma sentivo già la sua mancanza in modo insopportabile.

Feci un lungo respiro e infilai il biglietto in fondo allo zaino, dove Jacob l'avrebbe trovato facilmente.

Incrociai le dita e sperai che Jacob avesse almeno studiato spagnolo, dato che ritenevo improbabile la presenza di un insegnante di portoghese nella sua scuola.

Ormai non restava altro che aspettare.

Per due giorni Edward e Carlisle si fermarono nella radura dove Alice aveva visto arrivare i Volturi. Era lo stesso campo di battaglia in cui i neonati di Victoria ci avevano attaccato l'estate precedente. Mi chiesi se per Carlisle fosse un'esperienza ripetitiva, come un déjà vu. Per me sarebbe stato tutto nuovo. Stavolta io ed Edward saremmo stati lì insieme alla nostra famiglia.

Tutto ci induceva a pensare che il segugio dei Volturi avrebbe preso di mira Edward o Carlisle. Chissà se trovarsi di fronte a una preda che non fuggiva li avrebbe colti di sorpresa. Li avrebbe resi prudenti? Non riuscivo a immaginare che i Volturi potessero pensare di agire con cautela.

Avevo buone speranze di essere invisibile per Demetri, tuttavia restai con Edward. Ovvio. Ci restavano solo poche ore da passare insieme.

Io ed Edward non ci eravamo scambiati un'ultima scena tragica di addio, e non era nei miei programmi. Pronunciare quella parola equivaleva a renderla definitiva. Sarebbe stato come scrivere la parola FINE sull'ultima pagina di un manoscritto. Quindi non ci dicemmo addio e restammo vicini, sempre a contatto. Quale che fosse la fine che ci aspettava, non ci avrebbe trovati separati.

Montammo una tenda per Renesmee qualche metro più indietro, al riparo nel bosco, e provammo un altro déjà vu nel vederci di nuovo accampati al freddo con Jacob. Era quasi impossibile credere quanto la situazione fosse cambiata dal giugno precedente. Sette mesi prima sembrava che il triangolo dei rapporti che ci legavano avesse un destino segnato, fatto soltanto di cuori spezzati. Ora tutto era in perfetto equilibrio. Per un'orribile ironia della sorte, le tessere del puzzle si incastravano alla perfezione poco prima di venire distrutte.

Ricominciò a nevicare la sera prima di Capodanno. Stavolta i fiocchi minuscoli non si sciolsero sul terreno petroso della radura. Mentre Renesmee e Jacob dormivano - e lui russava così forte che non so come facesse Renesmee a non svegliarsi - la neve formò un primo strato sottile ghiacciato sul terreno, poi si accumulò in mucchi più spessi. All'alba la scena della visione di Alice era completa. Io ed Edward ci tenevamo per mano mentre guardavamo il campo bianco che riluceva, e nessuno dei due parlò.

Per tutta la mattina gli altri si radunarono, le tracce silenziose dei loro preparativi ben visibili negli occhi: alcuni di color oro chiaro, altri di un cremisi intenso. Poco dopo esserci ritrovati tutti insieme, sentimmo i lupi muoversi nei boschi. Jacob uscì dalla tenda, lasciando Renesmee ancora addormentata, per unirsi a loro.

Edward e Carlisle stavano schierando gli altri in una specie di formazione, con i testimoni ai lati, come spettatori.

Li osservavo da lontano mentre aspettavo vicino alla tenda il risveglio di Renesmee. Poi l'aiutai a indossare i vestiti che avevo scelto attentamente due giorni prima. Vestiti femminili e vaporosi all'apparenza, ma in realtà abbastanza resistenti da non mostrare tracce di usura, nemmeno dopo un viaggio oltre i confini di un paio di Stati in groppa a un gigantesco licantropo. Sopra il giubbotto le infilai lo zainetto di pelle nera con i documenti, i soldi, l'indizio e i miei biglietti d'addio per lei e Jacob, Charlie e Renée. Era abbastanza forte da portarlo senza fatica.

Osservava la sofferenza sul mio viso a occhi sgranati. Ma aveva intuito quel che bastava e non mi chiese cosa stessi facendo.

«Ti voglio bene», le dissi. «Più di ogni altra cosa».

«Anch'io ti voglio tanto bene, mamma», rispose. Toccò la medaglietta che portava al collo, che adesso conteneva una piccola foto di lei, me ed Edward. «Staremo sempre insieme».

«Nel nostro cuore staremo sempre insieme», la corressi con un sussurro tenue come un respiro. «Ma oggi, quando verrà il momento, mi devi lasciare».

Spalancò gli occhi e accostò la mano alla mia guancia. Quel suo No muto fu più forte che se lo avesse gridato.

Mi sforzai di deglutire: sentivo la gola gonfia. «Lo farai per me? Per favore?».

Mi premette ancora più forte le dita sul viso. Perché?

«Non te lo posso dire», sussurrai. «Ma presto capirai. Te lo prometto».

Nella mente vedevo il viso di Jacob.

Annuii, poi allontanai le sue dita. «Non ci pensare», le sussurrai nell'orecchio. «Non dire niente a Jacob finché non ti dico di fuggire, va bene?».

Questo lo capì. Annuì anche lei.

Dalla tasca tirai fuori un'ultima cosa.

Mentre facevo i bagagli per Renesmee, un'inattesa scintilla di colore aveva attirato la mia attenzione. Un raggio di sole ramingo dal lucernario aveva colpito i gioielli sopra l'antica e preziosa scatola riposta su un alto scaffale, in un angolo nascosto. L'avevo guardato per un attimo e poi avevo fatto spallucce. Dopo aver messo insieme gli indizi di Alice, non potevo sperare che lo scontro imminente si sarebbe risolto in modo pacifico. Ma perché non provare a iniziare tutto nel modo più amichevole possibile? Che male poteva fare? Forse dopotutto mi restava un po' di speranza, sebbene cieca e insensata, visto che mi arrampicai sugli scaffali per prendere il regalo di nozze di Aro.

Mi legai intorno al collo lo spesso cordone d'oro e sentii il peso di quel diamante enorme che si posava nell'incavo della gola.

«Bello», sussurrò Renesmee. Poi mi serrò le braccia intorno al collo come in una morsa. Io la strinsi al petto. Stando così allacciate, la portai fuori dalla tenda, nella radura.

Edward inarcò un sopracciglio quando mi avvicinai, ma non fece altri commenti sui miei accessori o quelli di Renesmee. Si limitò a stringerci forte per un attimo eterno e poi, con un sospiro, ci lasciò andare. Nei suoi occhi non c'era un addio. Forse sperava in qualcosa dopo la morte, più di quanto avesse lasciato intendere.

Prendemmo posto e Renesmee si arrampicò agile sulla mia schiena per lasciarmi libere le mani. Io rimasi qualche metro dietro la prima linea formata da Carlisle, Edward, Emmett, Rosalie, Tanya, Kate ed Eleazar. Più vicini a me c'erano Benjamin e Zafrina: il mio compito era proteggerli fino a quando ci fossi riuscita. Erano le nostre migliori armi offensive. Se erano i Volturi quelli impossibilitati a vedere, anche solo per pochi attimi, sarebbe cambiato tutto.

Zafrina era severa e spietata, e Senna al suo fianco ne era quasi il riflesso speculare. Benjamin era seduto per terra, con i palmi premuti al suolo, e borbottava qualcosa a proposito delle linee di faglia. La sera prima aveva sparpagliato mucchi di sassi in tutta la parte posteriore del campo, disponendoli a formare un paesaggio dall'apparenza naturale, e ora erano ricoperti di neve. Non bastavano a fare del male a un vampiro, ma forse a distrarlo, almeno lo speravamo.

I testimoni si disposero a grappolo alla nostra destra e alla nostra sinistra, alcuni più vicini degli altri: quelli che si erano dichiarati erano i più vicini. Vidi che Siobhan si strofinava le tempie, con gli occhi chiusi per concentrarsi meglio. Stava compiacendo Carlisle, cercando di visualizzare una conclusione diplomatica della vicenda?

Nel bosco dietro di noi, i lupi invisibili erano silenziosi e pronti: sentivamo solo il loro forte ansimare e il battito dei cuori.

Il cielo si coprì di nuvole che smorzarono la luce, avrebbe potuto essere sia mattina che pomeriggio. Edward forzò lo sguardo per esaminare il panorama ed ero sicura che avesse già visto una volta questa stessa scena: nella visione di Alice. L'arrivo dei Volturi sarebbe stato esattamente identico. Ora ci mancavano solo pochi minuti o secondi.

Tutta la nostra famiglia e gli alleati si prepararono agli eventi.

Dalla foresta emerse l'enorme alfa rossiccio, che si mise al mio fianco: probabilmente era troppo difficile per lui mantenere le distanze da Renesmee quando si trovava in un pericolo così imminente.

Renesmee si sporse ad affondare le dita nella pelliccia sopra la sua schiena robusta e rilassò un poco il corpo. Era più calma, con Jacob vicino. Anch'io mi sentivo un po' meglio. Finché Jacob era con Renesmee, non le sarebbe successo niente.

Senza arrischiarsi a guardare indietro, Edward si girò verso di me. Stesi il braccio in modo da potergli afferrare la mano. Mi strinse le dita.

Passò un altro minuto, mentre mi sforzavo di sentire i rumori che tradissero il loro avvicinamento.

Poi Edward s'irrigidì e sibilò piano fra i denti serrati. Con gli occhi si concentrò sulla foresta a nord del punto in cui ci trovavamo.

Fissammo anche noi lo sguardo in quella direzione, aspettando che trascorressero gli ultimi secondi.

36

Sete di sangue

Arrivarono con grande sfarzo, non senza una certa bellezza.

Arrivarono in formazione rigida, solenne. Si muovevano all'unisono, ma non era una marcia: affluirono con perfetta sincronia dagli alberi. Una sagoma scura e ininterrotta che sembrava sospesa di qualche centimetro sopra la neve bianca, tanto fluida era la sua avanzata.

Le ali esterne erano grigie: il colore si scuriva a ogni fila di corpi, fino ad arrivare al cuore della formazione, che era del nero più intenso. Tutti i visi erano ricoperti da cappucci e in ombra. Il vago fruscio dei piedi era così regolare da sembrare musica, un ritmo complicato che non mostrava mai esitazione.

A un segnale che non notai - o forse non vi fu alcun segnale, ma solo millenni di esercizio - la struttura si allargò verso l'esterno. Il movimento era troppo rigido, troppo geometrico per ricordare lo schiudersi di un fiore, anche se il colore poteva suggerirlo: fu come un ventaglio che si apriva, aggraziato ma molto spigoloso. Le figure con il mantello grigio si disposero sui fianchi, mentre quelle più scure avanzarono con precisione fino al centro, misurando al millimetro ogni movimento.

La loro avanzata era lenta ma decisa, senza fretta, senza tensione, senza ansia. Era l'andatura degli invincibili.

Coincideva quasi alla perfezione con il mio vecchio incubo. L'unica cosa che mancava era il desiderio perverso che avevo visto sui volti del mio sogno, i sorrisi di vendetta compiaciuta. Fino ad allora, i Volturi erano stati troppo disciplinati per tradire alcuna emozione. Non diedero il minimo segno di sorpresa o di sgomento nel vedere il gruppo di vampiri che li aspettava: sembrava disorganizzato e impreparato, in confronto a loro. Non batterono ciglio nemmeno di fronte al lupo gigante che stava fra noi.

Non riuscii a trattenermi dal contarli. Erano in trentadue. Anche escludendo le due figure incerte e derelitte che stavano in fondo a tutto il gruppo, che pensai fossero le mogli, e la cui posizione protetta suggeriva che non sarebbero state coinvolte nell'attacco, eravamo comunque in svantaggio numerico. Solo diciannove di noi avrebbero combattuto, di fronte ad altri sette che avrebbero assistito alla nostra distruzione. Anche contando i dieci lupi, eravamo spacciati.

«Arrivano le giubbe rosse, arrivano le giubbe rosse», borbottò Garrett misteriosamente fra sé e poi ridacchiò. Fece un passo per avvicinarsi a Kate.

«Sono venuti, alla fine», sussurrò Vladimir a Stefan.

«Le mogli», gli rispose Stefan con un sibilo. «Tutto il corpo di guardia. Tutti insieme. Meno male che ci siamo tenuti lontano da Volterra».

Poi, come se non bastasse la loro schiera, mentre i Volturi avanzavano lenti e maestosi, altri vampiri cominciarono a entrare nella radura al loro seguito.

I volti di quell'affluire apparentemente infinito di vampiri erano l'antitesi della disciplina asettica dei Volturi: vi si leggeva un caleidoscopio di emozioni. Inizialmente ci fu lo shock, e persino un po' di ansia, nel vedere quella forza inattesa che li aspettava. La preoccupazione passò presto: si sentivano sicuri del loro numero soverchiante, sicuri nella loro posizione dietro alla forza inarrestabile dei Volturi. I loro tratti tornarono all'espressione iniziale.

Da quei visi eloquenti era piuttosto facile capire la loro disposizione d'animo. Era una banda di gente infuriata, esaltata fino al parossismo e assetata di giustizia. Prima di leggere quei volti non avevo mai capito in pieno l'atteggiamento del mondo dei vampiri verso i bambini immortali.

Era chiaro che quell'orda eterogenea e disorganizzata, composta da più di quaranta vampiri, fosse considerata dai Volturi l'equivalente dei nostri testimoni. Dopo la nostra morte, avrebbero sparso la voce che i criminali erano stati estirpati, che i Volturi si erano comportati nel modo più imparziale possibile. La maggior parte dei vampiri, però, sembrava sperare in qualcosa di più: volevano partecipare a distruzioni e roghi.

Non avevamo scampo. Anche se in qualche modo fossimo riusciti a neutralizzare i più pericolosi, i Volturi ci erano comunque superiori in numero. Anche se avessimo ucciso Demetri, Jacob non sarebbe stato in grado di fuggire.

Percepii che la stessa riflessione si faceva strada nelle persone intorno a me. L'aria, appesantita dalla disperazione, mi spingeva giù con ancora più forza di prima.

Tra le forze avversarie, c'era un vampiro che sembrava non appartenere a nessuna delle due parti: riconobbi Irina, che esitava fra le due compagnie, con un'espressione unica fra le altre. Il suo sguardo atterrito era fisso su Tanya schierata in prima linea. Edward ringhiò, con un suono basso ma deciso.

«Alistair aveva ragione», mormorò a Carlisle.

Guardai Carlisle che fissava Edward con aria interrogativa.

«Alistair aveva ragione?», sussurrò Tanya.

«Loro - Aro e Caius - sono venuti per distruggerci e assimilarci», rispose Edward, quasi in un sospiro perché solo quelli della nostra parte lo udissero. «Hanno già studiato buona parte delle strategie possibili. Si erano già impegnati a cercare un altro motivo per offendersi, se l'accusa di Irina si fosse dimostrata in qualche modo falsa. Ma ora vedono Renesmee, quindi sono ottimisti sull'andamento della situazione. Potremmo comunque tentare di difenderci dalle altre accuse premeditate che ci rivolgeranno, ma devono prima fermarsi e ascoltare la verità su Renesmee». Concluse a voce ancora più bassa: «E non hanno la minima intenzione di farlo».

Jacob fece uno strano sbuffo.

Poi, inaspettatamente, due secondi dopo, la processione si fermò. La musica bassa dei movimenti sincronizzati alla perfezione si trasformò in silenzio. La disciplina impeccabile non venne meno: i Volturi si bloccarono nell'immobilità assoluta come un sol uomo. Si trovavano a un centinaio di metri da noi.

Ai lati, dietro di me, sentii avvicinarsi il battito di grossi cuori. Mi arrischiai a guardare a sinistra e a destra con la coda dell'occhio e vidi cosa aveva fermato l'avanzata dei Volturi.

I lupi si erano uniti a noi.

I lupi formavano lunghi bracci che delimitavano ciascun lato della nostra linea irregolare. Dedicai solo una frazione di secondo a notare il fatto che erano più di dieci e a distinguere i lupi che conoscevo da quelli che non avevo mai visto. Ce n'erano sedici distribuiti regolarmente intorno a noi; un totale di diciassette, contando Jacob. Dall'altezza e dalle zampe troppo grandi dei nuovi arrivi, traspariva con evidenza la loro età giovanissima. Immaginai che avrei dovuto prevederlo. Con tanti vampiri accampati nei paraggi, un'impennata della popolazione di licantropi era inevitabile.

Altri ragazzini che sarebbero morti. Mi chiesi perché Sam lo avesse permesso, ma poi capii che non aveva avuto altra scelta. Se uno qualunque dei lupi si fosse schierato con noi, era certo che i Volturi sarebbero andati a cercare anche gli altri. Avevano messo a rischio tutta la loro specie prendendo posizione.

E avremmo perso.

Improvvisamente, mi ritrovai infuriata. Anzi, ben più che infuriata: ero in preda a una rabbia omicida. La mia disperazione sconsolata era del tutto scomparsa. Un vago bagliore rossastro evidenziava le figure scure che mi erano di fronte e in quel momento non desideravo altro che affondargli i denti nel corpo, strappargli le membra e ammucchiarle per poi appiccarvi il fuoco. Ero talmente infuriata che avrei potuto danzare intorno alla pira mentre bruciavano vivi: avrei riso davanti alle loro ceneri ardenti. Le labbra mi si tesero automaticamente all'indietro e un ringhio basso e feroce mi si fece strada nella gola, dalla bocca dello stomaco. Mi accorsi che avevo gli angoli della bocca curvati in un sorriso.

Al mio fianco, Zafrina e Senna imitarono il mio ruggito soffocato. Edward mi strinse la mano che ancora teneva, mettendomi in guardia.

I visi celati dei Volturi erano in gran parte privi di espressione. Solo due paia di occhi tradivano una qualche emozione. Al centro, con le mani in contatto, Aro e Caius si erano fermati per studiare la situazione e tutto il corpo di guardia sostava insieme a loro, in attesa dell'ordine di uccidere. I due non si guardavano, ma era evidente che stavano comunicando. Marcus, anche se toccava l'altra mano di Aro, non sembrava assorto nella conversazione. L'espressione non era vacua come quella del corpo di guardia, ma quasi altrettanto vuota. Come l'ultima volta che l'avevo visto, sembrava incredibilmente annoiato.

I corpi dei testimoni dei Volturi erano inclinati nella nostra direzione, con gli sguardi furiosi fissi su me e Renesmee, ma si erano fermati vicino al limitare della foresta, tenendosi alla larga dai soldati della guardia. Solo Irina si aggirava dietro i Volturi, a pochi passi dalle donne anziane - entrambe dai capelli chiari, la pelle fragile e gli occhi velati - e dalle loro massicce guardie del corpo.

Nascosta da uno dei mantelli di un grigio più scuro, subito dietro ad Aro, c'era una donna. Non ero sicura, ma sembrava gli stesse toccando la schiena. Era lei Renata, l'altro scudo? Come Eleazar, mi chiesi se sarebbe riuscita a respingermi.

Ma non avrei sprecato la mia vita per arrivare a Caius e Aro. Avevo bersagli molto più importanti.

Esaminai le loro file per cercarli e scorsi con facilità i due minuscoli mantelli grigio scuro vicino al centro dello schieramento. Alec e Jane, che probabilmente erano i membri più minuti del corpo di guardia, erano al fianco di Marcus e dall'altro lato avevano Demetri. I visi adorabili erano dolci e non rivelavano nulla; portavano i mantelli della gradazione più scura prima di quella nerissima degli anziani. «Gemelli stregati», li aveva chiamati Vladimir. Sui loro poteri si basava tutta l'offensiva dei Volturi. Erano i gioielli della collezione di Aro.

Flettei i muscoli e nella bocca mi sgorgò il veleno.

Gli occhi rossi screziati di Aro e Caius guizzarono fra le nostre file. Lessi la delusione sul volto di Aro mentre con lo sguardo ci perlustrava i volti più e più volte, in cerca di quello assente. Aveva le labbra strette per il disappunto.

In quel momento ero solo grata del fatto che Alice fosse fuggita.

Mentre la pausa si allungava, sentii il respiro di Edward che accelerava.

«Edward?», chiese Carlisle, ansioso, a bassa voce.

«Non sanno bene come procedere. Stanno soppesando le possibilità, scegliendo gli obiettivi più importanti: me, naturalmente, te, Eleazar, Tanya. Marcus decifra la forza dei legami che ci uniscono, in cerca di punti deboli. La presenza dei rumeni li irrita. Sono preoccupati per i visi che non riconoscono, Zafrina e Senna in particolare, e naturalmente i lupi. È la prima volta che vengono messi in minoranza. È stato questo a fermarli».

«In minoranza?», sussurrò Tanya incredula.

«Per loro i testimoni non contano», bisbigliò Edward. «Sono nullità, così come il corpo di guardia. È solo che ad Aro piace avere pubblico».

«Devo parlare?», chiese Carlisle.

Edward esitò, poi annuì. «Non credo avrai altre occasioni».

Carlisle drizzò le spalle e a passi lenti avanzò oltre la nostra linea di difesa. Era terribile vederlo solo, inerme.

Allargò le braccia, con i palmi rivolti verso l'alto in segno di saluto. «Aro, amico mio. Sono secoli che non ci vediamo».

Per un lungo attimo, nella radura imbiancata scese un silenzio di tomba. Sentii l'agitazione di Edward tendersi mentre ascoltava Aro che valutava le parole di Carlisle. La tensione saliva con il passare dei secondi.

Allora Aro uscì dal centro della formazione dei Volturi. Renata, lo scudo, si mosse con lui come se avesse la punta delle dita cucita al suo mantello. Per la prima volta le schiere dei Volturi reagirono. Le loro file furono percorse da un brontolio sommesso, le sopracciglia si aggrottarono, le labbra si arricciarono a scoprire i denti. Alcuni del corpo di guardia si sporsero in avanti, accucciati.

Aro alzò una mano nella loro direzione. «Veniamo in pace».

Fece qualche altro passo, poi inclinò la testa da un lato. Gli occhi velati brillavano di curiosità.

«Parole giuste, Carlisle», disse con quella voce esile e sottile. «Sembrano fuori posto, visto l'esercito che hai radunato per uccidere me e i miei cari».

Carlisle scosse la testa e gli offrì la mano, come se non ci fossero ancora un centinaio di metri a dividerli. «Basta che mi tocchi la mano per capire che non ho mai avuto quell'intenzione».

Gli occhi scaltri di Aro si strinsero in una fessura. «Ma come può avere qualche importanza la tua intenzione, caro Carlisle, di fronte a ciò che hai fatto?». Fece una smorfia e un'ombra di tristezza gli attraversò il viso: non avrei saputo dire se era sincera.

«Non ho commesso il crimine per il quale sei venuto a punirmi».

«Allora fatti da parte e lasciami punire chi ne è responsabile. Sul serio, Carlisle, nulla mi farebbe più piacere che risparmiarti la vita, oggi».

«Nessuno ha infranto la legge, Aro. Lasciami spiegare». E Carlisle gli porse di nuovo la mano.

Prima che Aro riuscisse a rispondere, Caius arrivò veloce al suo fianco.

«Quante regole inutili, quante leggi superflue ti crei, Carlisle», sibilò l'anziano canuto. «Come è possibile che difendi la violazione dell'unica che conti davvero?».

«La legge non è stata violata. Se solo mi ascoltassi...».

«Vediamo la bambina, Carlisle», rispose Caius con un ringhio. «Non prenderci per stupidi».

«Lei non è affatto un'immortale. Non è una vampira. Te lo posso dimostrare facilmente in pochi attimi di...».

Caius lo interruppe. «Se non è una dei proibiti, allora perché avete raggruppato un battaglione per proteggerla?».

«Sono testimoni, Caius, proprio come quelli che avete portato voi». Carlisle accennò all'orda furiosa appostata al limitare del bosco. Alcuni di loro ringhiarono in tutta risposta. «Uno qualsiasi di questi amici ti può dire la verità sulla bambina. Oppure puoi guardarla con i tuoi occhi, Caius. Guarda la vampata di sangue umano che ha sulle guance».

«È un espediente!», gridò Caius in tono aspro. «Dov'è l'informatrice? Portatela qui!». Scrutò con impazienza attorno a sé finché non vide Irina che indugiava dietro le mogli. «Tu! Vieni!».

Irina lo fissò sconcertata, con l'aria di chi non si è ancora svegliata da un incubo funesto. Caius schioccò le dita con impazienza. Una delle enormi guardie del corpo delle mogli al fianco di Irina la spinse rozzamente sulla schiena. Irina batté le palpebre un paio di volte, poi, stordita, si avviò lenta verso Caius. Si fermò a vari metri da lui, fissando ancora le proprie sorelle.

Caius le si avvicinò e con uno schiaffo la colpì in pieno viso.

Era impossibile che le avesse fatto male, ma in quell'azione c'era qualcosa di davvero umiliante. Era come guardare qualcuno che prendeva a calci un cane. Tanya e Kate sibilarono all'unisono.

Il corpo di Irina s'irrigidì e infine fissò lo sguardo su Caius, il cui dito rapace indicò Renesmee, che si abbarbicò alla mia schiena, stringendo ancora convulsamente con una mano un ciuffo del pelo di Jacob. Dentro il mio sguardo furioso Caius diventò tutto rosso. Nel petto di Jacob tuonò un ruggito.

«È quella la bambina che hai visto?», chiese perentorio Caius. «Quella che, evidentemente, era più che umana?».

Irina ci guardò con attenzione, esaminando Renesmee per la prima volta da quando era entrata nella radura. Inclinò il capo da un lato e sul viso le si dipinse una certa confusione.

«Ebbene?», chiese Caius con acredine.

«Io... non ne sono sicura», disse con tono perplesso.

Caius ebbe uno spasmo a una mano, come se volesse schiaffeggiarla di nuovo. «Cosa vuoi dire?», le chiese in un sussurro inflessibile.

«Non è uguale, ma credo sia la stessa bambina. Cioè, è cambiata. Questa bambina è più grande di quella che ho visto, ma...».

Il rantolo furioso di Caius crepitò fra i suoi denti improvvisamente scoperti e Irina s'interruppe senza finire. Aro svolazzò al fianco di Caius e gli posò una mano sulla spalla per bloccarlo.

«Stai calmo, fratello. Abbiamo tutto il tempo di risolvere la questione. Non c'è fretta».

Con un'espressione astiosa, Caius voltò le spalle a Irina.

«Dunque, tesoruccio», disse Aro con un mormorio caldo e insinuante. «Mostrami quello che stai provando a dirci». Porse la mano alla vampira sconcertata.

Irina gliela prese, esitante. Lui la tenne per soli cinque secondi.

«Vedi, Caius?», chiese. «È un modo semplice per ottenere quello di cui abbiamo bisogno».

Caius non gli rispose. Con la coda dell'occhio, Aro lanciò un'occhiata fugace al suo pubblico, la sua orda, poi tornò a rivolgersi a Carlisle.

«E così, a quanto pare, dovremo farci carico di un mistero. Si direbbe che la bambina è cresciuta. Eppure il primo ricordo di Irina era chiaramente quello di un bambino immortale. Curioso».

«È proprio quello che sto cercando di spiegare», disse Carlisle e dal tono mutato della sua voce intuii quanto si sentisse sollevato. Questa era l'esitazione su cui avevamo riposto tutte le nostre deboli speranze.

Io non provai alcun sollievo. Aspettai, resa quasi insensibile dalla rabbia, di vedere all'opera le strategie di cui aveva parlato Edward.

Carlisle porse di nuovo la mano.

Aro esitò per un attimo: «Preferirei avere una spiegazione da una persona più coinvolta nella storia, amico mio. Mi sbaglio a pensare che questa infrazione non è stata opera tua?».

«Non c'è stata alcuna infrazione».

«Sia come sia, io voglio conoscere ogni sfaccettatura della verità». La voce morbida di Aro s'indurì. «E il modo migliore per ottenerla è chiedere le prove al tuo abile figliolo». Inclinò il capo in direzione di Edward. «Dato che la bambina sta aggrappata alla compagna neonata di Edward, immagino proprio che lui sia coinvolto».

Era ovvio che volesse Edward. Una volta che fosse riuscito a leggergli nella mente, avrebbe conosciuto tutti i nostri pensieri. Tranne i miei.

Edward si girò per dare un rapido bacio sulla fronte a me e Renesmee, senza guardarmi negli occhi. Poi attraversò a grandi passi il prato innevato, dando una pacca sulla spalla a Carlisle quando gli arrivò di fianco. Sentii un debole lamento dietro di me: era il terrore di Esme che faceva breccia.

L'alone rosso che vedevo attorno all'esercito dei Volturi era più acceso di prima. Non sopportavo la vista di Edward che attraversava da solo quello spazio bianco e vuoto, ma al tempo stesso non avrei tollerato che Renesmee si avvicinasse anche di un solo passo ai nostri avversari. Ero divisa in due fra quei bisogni opposti: bloccata in modo talmente rigido che le mie ossa avrebbero potuto frantumarsi sotto quella pressione.

Vidi Jane sorridere, mentre Edward oltrepassava la metà della distanza che ci divideva, trovandosi così più vicino a loro che a noi.

Fu quel sorrisetto insolente la goccia che fece traboccare il vaso. La mia ira raggiunse l'apice, superò la furiosa sete di sangue che avevo provato nel momento in cui i lupi si erano impegnati in questo scontro dall'esito tragico. Sulla lingua sentivo il sapore della furia: lo sentivo fluire in me come un'ondata. I muscoli contratti, agivo per automatismi. Scagliai il mio scudo con tutta la forza che avevo nella mente, lo gettai come un giavellotto al di là della distesa immensa del campo, una lunghezza impossibile, dieci volte la distanza migliore che avessi mai raggiunto. Il respiro mi uscì rapido, sbuffando, per lo sforzo.

Lo scudo fuoriuscì da me in una bolla di energia pura, un fungo atomico di acciaio liquido. Pulsava come una creatura vivente: lo sentivo alla perfezione, dalla sommità fino ai bordi.

Il tessuto elastico non subì alcun contraccolpo: in quell'istante di forza cruda, capii che il rinculo che vi era stato in altre occasioni era opera mia: mi ero aggrappata a quella parte invisibile di me per autodifesa, rifiutando di lasciarla libera nel mio inconscio. In quel momento la sprigionai tutta e lo scudo esplose a una cinquantina di metri da me senza alcuno sforzo, prendendosi solo una minima parte della mia capacità di concentrazione. Lo sentivo flettersi, un muscolo come tanti che obbediva alla mia volontà. Lo spinsi e gli diedi la forma di un lungo ovale appuntito. Improvvisamente tutto quello che si trovava sotto lo scudo di ferro flessibile era diventato parte di me: sentivo la forza vitale di tutto ciò che copriva sotto forma di punti di calore luminoso, scintille di luce abbagliante che mi circondavano. Scagliai lo scudo per tutta la lunghezza della radura e sospirai di sollievo quando avvertii la luce brillante di Edward all'interno della mia protezione. Restai lì, a contrarre quel nuovo muscolo in modo che circondasse Edward da vicino, formando un velo sottile ma infrangibile fra il suo corpo e i nostri nemici.

Era passato sì e no un secondo. Edward stava ancora camminando in direzione di Aro. Tutto era cambiato, ma nessuno si era accorto dell'esplosione, a parte me. Dalle labbra mi uscì una risatina sorpresa. Vidi gli altri che mi fissavano e un occhio nero di Jacob che mi guardava dall'alto come se fossi impazzita.

Edward si fermò a qualche passo di distanza da Aro e con un certo disappunto capii che, anche se sicuramente ne ero in grado, non dovevo assolutamente impedire lo svolgimento di quello scambio. Era il punto cruciale di tutti i nostri preparativi: far sì che Aro ascoltasse la nostra versione della storia. Fu un dolore quasi fisico, ma con riluttanza ritirai lo scudo e lasciai Edward di nuovo scoperto. L'umore ilare era svanito. Mi concentrai totalmente su di lui, pronta a riavvolgerlo con lo scudo all'istante, se qualcosa fosse andato storto.

Edward alzò il mento con arroganza e porse la mano ad Aro come se gli stesse concedendo un grande onore. Aro inizialmente parve divertito dalla sua grinta, ma ciò non valeva per tutti. Renata svolazzava nervosa all'ombra di Aro. E il cipiglio di Caius era talmente profondo da far sembrare la piega una ruga definitiva sulla pelle traslucida come pergamena. La piccola Jane mostrava i denti e al suo fianco Alec stringeva gli occhi per la concentrazione. Immagino che fosse preparato, come me, ad agire in capo a un secondo.

Aro coprì la distanza senza pause: dopo tutto, cosa aveva da temere? Le sagome massicce con i mantelli di un grigio più chiaro - i combattenti muscolosi, come Felix - erano a pochi metri di distanza. Jane e il suo dono incandescente avrebbero potuto scagliare a terra Edward, lasciandolo in preda a spasmi di sofferenza. Alec poteva accecarlo e assordarlo prima ancora che facesse un passo in direzione di Aro. Nessuno sapeva che avevo la forza di fermarli, nemmeno Edward.

Aro, con un sorriso imperturbabile, prese la mano di Edward. Chiuse gli occhi immediatamente, poi curvò le spalle sotto il peso di tante informazioni.

Tutti i pensieri segreti, tutte le strategie, tutte le intuizioni, tutto ciò che Edward aveva sentito nelle menti che aveva avuto intorno durante l'ultimo mese, ora appartenevano ad Aro. E persino fatti più vecchi: tutte le visioni di Alice, tutti i momenti di armonia con la nostra famiglia, tutte le immagini nella testa di Renesmee, tutti i baci e tutti i contatti fra Edward e me... anche tutto questo ormai apparteneva ad Aro.

Sibilai per l'irritazione e lo scudo ne fu infastidito, cambiò forma e si contrasse intorno alle nostre linee.

«Tranquilla, Bella», mi sussurrò Zafrina.

Strinsi forte i denti.

Aro continuò a concentrarsi sui ricordi di Edward. Anche Edward chinò il capo, i muscoli del collo contratti mentre rileggeva tutto quello che Aro gli aveva sottratto e la reazione che provocava in lui.

Questa conversazione bidirezionale ma non reciproca continuò abbastanza a lungo da far spazientire il corpo di guardia. Fra le file serpeggiarono mormorii a bassa voce, finché Caius non abbaiò l'ordine di stare in silenzio. Jane si sporgeva in avanti come se non riuscisse a trattenersi e Renata aveva il viso rigido per la preoccupazione. Per un attimo, esaminai il suo scudo potente, che sembrava debole e spaventato: anche se era utile ad Aro, capivo che non era una guerriera. Il suo compito non era combattere, ma proteggere. Non aveva sete di sangue. Io, grezza com'ero, capii che se lo scontro fosse stato solo fra me e lei l'avrei annientata.

Ripresi la concentrazione quando Aro si raddrizzò e riaprì gli occhi in preda a un'espressione sbigottita e sospettosa. Non lasciò la mano di Edward.

Edward allentò i muscoli in modo impercettibile.

«Vedi?», disse con un tono calmo nella voce vellutata.

«Certo che vedo», concordò Aro e, sorprendentemente, il suo tono era quasi divertito. «Mi chiedo se un'altra coppia di divinità o di mortali abbia mai visto con tanta chiarezza».

I volti disciplinati del corpo di guardia mostravano la stessa incredulità che provavo io.

«Mi hai dato molti elementi su cui riflettere, giovane amico», Aro continuò. «Molti più di quanti me ne aspettassi». Non lasciava ancora andare la mano di Edward, che aveva l'atteggiamento di una persona tesa in ascolto.

Edward non gli rispose.

«Posso conoscerla?», chiese Aro, improvvisamente interessato e quasi supplice. «Per tutti i secoli in cui ho vissuto, non ho mai nemmeno immaginato che potesse esistere una cosa del genere. Che splendida aggiunta ai nostri annali!».

«Che storia è mai questa, Aro?», chiese aspro Caius, prima che Edward potesse rispondere. Bastò quella domanda a farmi prendere Renesmee fra le braccia, stringendomela al petto con delicatezza per proteggerla.

«Qualcosa che non ti sognavi nemmeno, mio pratico amico. Prenditi un attimo per valutarla, perché la giustizia che intendevamo ristabilire non è mai stata infranta».

A quelle parole, Caius sibilò sorpreso.

«Pace, fratello», lo mise in guardia Aro con tono conciliante.

Doveva essere una buona notizia: quelle erano le parole in cui tutti speravamo, la tregua che non avremmo mai immaginato possibile. Aro aveva ascoltato la verità. Aro aveva ammesso che la legge non era stata infranta.

Ma io avevo gli occhi fissi su Edward e vidi che contraeva i muscoli della schiena. Mi ricordai dell'indicazione che Aro aveva dato a Caius, valutare, e capii il doppio senso.

«Mi presenti tua figlia?», chiese di nuovo Aro a Edward.

Caius non fu l'unico a sibilare sentendo questa nuova rivelazione.

Edward annuì, riluttante. Eppure Renesmee aveva conquistato così tanti estranei. Aro era sempre sembrato il capo degli anziani. Se lui stava dalla sua parte, come avrebbero potuto gli altri attaccarci?

Aro teneva ancora stretta la mano di Edward e rispose a una domanda che nessuno di noi aveva sentito.

«Credo che sia accettabile un compromesso su questo punto, viste le circostanze. Incontriamoci a metà strada».

Gli lasciò andare la mano. Edward si voltò verso di noi e Aro lo seguì cingendogli con naturalezza una spalla, come fossero due amiconi, ma in modo da non perdere il contatto. Si diressero verso di noi.

Tutto il corpo di guardia si mise in marcia dietro di loro. Aro alzò una mano con aria noncurante, senza guardarli.

«Fermi, miei cari. Davvero, non ci faranno del male se siamo pacifici».

Il corpo di guardia ebbe una reazione molto più schietta di prima, con ringhi e fischi di protesta, ma restò al suo posto. Renata, aggrappata sempre più vicina ad Aro, gemette per l'ansia.

«Signore», sussurrò.

«Non agitarti, tesoro», rispose lui. «Va tutto bene».

«Forse è meglio che porti con te alcuni membri della guardia», suggerì Edward. «Li farà sentire più a loro agio».

Aro annuì, come se fosse una saggia osservazione cui avrebbe dovuto pensare lui per primo. Schioccò due volte le dita. «Felix, Demetri».

I due vampiri lo affiancarono subito, precisamente uguali all'ultima volta che li avevo visti. Erano entrambi alti, con i capelli scuri, Demetri spigoloso e sottile come la lama di una spada, Felix imponente e minaccioso come una mazza ferrata.

I cinque si fermarono al centro della radura innevata.

«Bella», esclamò Edward. «Porta Renesmee... e qualche amico».

Respirai a fondo. Il mio corpo si era irrigidito in una posizione di rifiuto. L'idea di mettere Renesmee al centro del conflitto... Però mi fidavo di Edward. Se Aro a quel punto avesse avuto in programma di comportarsi in modo sleale, lui lo avrebbe saputo.

Aro aveva tre protettori dalla sua parte in quell'incontro, quindi io ne avrei portati due con me. Mi bastò un secondo per decidere.

«Jacob? Emmett?», chiesi piano. Emmett, perché moriva dalla voglia. Jacob, perché non avrebbe sopportato di restare al suo posto, lontano da noi.

Entrambi annuirono. Emmett ghignò.

Attraversai il campo con loro al mio fianco. Udii un altro borbottio del corpo di guardia quando videro chi avevo scelto: chiaramente, non si fidavano del licantropo. Aro sollevò una mano, liquidando di nuovo la protesta con un gesto.

«Hai proprio delle compagnie interessanti», mormorò Demetri a Edward.

Edward non rispose, ma dai denti di Jacob sfuggì un basso ringhio.

Ci fermammo a qualche metro di distanza da Aro. Edward si sottrasse all'abbraccio di quest'ultimo e si unì rapido a noi, prendendomi per mano.

Per un attimo ci guardammo in silenzio. Poi Felix mi salutò a bassa voce.

«Ci si rivede, Bella». Rise impudente, senza smettere di controllare ogni movimento di Jacob con la coda dell'occhio.

Feci un sorriso sardonico all'enorme vampiro. «Ciao, Felix».

Ridacchiò. «Stai benissimo. L'immortalità ti sta d'incanto».

«Grazie mille».

«Prego. Peccato che...».

Interruppe il commento a metà, ma non mi serviva il dono di Edward per immaginarmi la fine. Peccato che fra un secondo ti uccideremo.

«Eh sì, è proprio un gran peccato», mormorai.

Felix mi fece l'occhiolino.

Aro non prestò alcuna attenzione al nostro scambio. Teneva la testa inclinata da una parte, affascinato. «Sento battere il suo strano cuoricino», disse con accento quasi musicale. «Mi arriva il suo strano profumo». Poi gli occhi annebbiati si spostarono su di me. «In verità, giovane Bella, l'immortalità ti dona in modo straordinario», disse. «È come se fossi nata apposta per questa vita».

Feci un cenno di riconoscenza per la sua lusinga.

«Ti è piaciuto il mio regalo?», mi chiese, guardando il ciondolo che avevo al collo.

«È bello ed è stato molto, molto generoso da parte tua. Grazie. Avrei dovuto mandare un bigliettino di ringraziamento».

Aro rise divertito. «È solo una sciocchezzuola che avevo da parte. Ho pensato che avrebbe potuto fare pendant col tuo nuovo viso, e così è stato».

Sentii un vago sibilo dal centro delle file dei Volturi. Guardai alle spalle di Aro.

Mmm. A quanto pareva, Jane non era troppo contenta del fatto che Aro mi avesse fatto un regalo.

Aro si schiarì la gola per richiamare la mia attenzione. «Posso salutare tua figlia, adorabile Bella?», mi chiese dolcemente.

Cercai di ricordare a me stessa che questo era proprio ciò che avevo sperato. Lottando contro l'istinto di prendere Renesmee e darmela a gambe, avanzai lentamente di due passi. Il mio scudo ondeggiava dietro di me come una cappa, proteggendo il resto della mia famiglia mentre Renesmee restava esposta. Sembrava una cosa sbagliata, orrenda.

Aro ci venne incontro raggiante.

«Ma è incantevole», mormorò. «Assomiglia così tanto a te e a Edward». E poi, più forte: «Ciao, Renesmee».

Renesmee mi diede un'occhiata rapida. Le feci un cenno affermativo.

«Ciao, Aro», rispose formale con la sua voce acuta e squillante.

Aro aveva l'aria perplessa.

«Cos'è?», gli chiese Caius sibilando da dietro. Sembrava scoppiasse dal bisogno di chiederglielo.

«Mezza mortale, mezza immortale», annunciò Aro a lui e al resto del corpo di guardia, senza distogliere lo sguardo ammaliato da Renesmee. «Concepita nello stesso modo e partorita da questa vampira neonata quando era ancora umana».

«Impossibile», lo schernì Caius.

«Allora pensi che mi abbiano preso in giro, fratello?». Aro aveva un'espressione molto divertita ma Caius trasalì. «E il cuore che senti battere è un trucco, secondo te?».

Caius fece una smorfia, con l'aria mortificata, come se le domande gentili di Aro fossero state colpi in piena faccia.

«Calma e pazienza, fratello», lo mise in guardia Aro, che sorrideva ancora a Renesmee. «So bene quanto tieni alla giustizia, ma non c'è nessuna giustizia nell'agire contro l'origine di questa piccolina unica al mondo. E poi abbiamo così tanto da imparare, così tanto! So che non hai il mio stesso entusiasmo per raccogliere storie, ma sii tollerante con me, fratello, mentre vi aggiungo un capitolo tanto improbabile che ne sono sbalordito. Siamo venuti con l'unica aspettativa di far rispettare la giustizia e di assistere alla triste fine della falsa amicizia, e guarda invece cosa abbiamo guadagnato! Una nuova e fulgida conoscenza di noi stessi e delle nostre potenzialità».

Porse la mano a Renesmee in segno d'invito. Ma non era questo che lei voleva. Si allontanò da me, tendendosi verso l'alto per posare le dita sul volto di Aro.

Lui non reagì con lo sconvolgimento tipico di chiunque altro a quel gesto da Renesmee: era abituato tanto quanto Edward a ricevere il flusso di pensieri e ricordi da altre menti.

Il suo sorriso si allargò e sospirò di soddisfazione. «Fantastico», sussurrò.

Renesmee tornò a rilassarsi fra le mie braccia, con un'espressione molto seria sul visino.

«Lo farai, per piacere?», gli chiese.

Il sorriso di Aro diventò gentile. «Ma certo che non ho la minima intenzione di fare del male ai tuoi cari, carissima Renesmee».

Aro aveva una voce così consolante e affettuosa che per un attimo riuscì quasi a ingannarmi. Poi sentii Edward che digrignava i denti e, molto più indietro di noi, il sibilo indignato di Maggie davanti a quella menzogna.

«Mi chiedo se...», disse cauto Aro, apparentemente ignaro della reazione causata dalle sue parole. In modo inaspettato, spostò lo sguardo verso Jacob e, invece del disgusto con cui l'avevano guardato gli altri Volturi, osservò il lupo gigantesco con occhi pieni di una brama che non capivo.

«Non funziona così», disse Edward, con un tono aspro e improvvisamente privo di tutta l'attenta neutralità di prima.

«Era solo un pensiero come un altro», disse Aro, soppesando apertamente Jacob, poi con lo sguardo si spostò piano lungo le due file di licantropi dietro di noi. Qualsiasi cosa gli avesse mostrato Renesmee, aveva d'un tratto reso i lupi più interessanti.

«Non appartengono a noi, Aro. Non eseguono i nostri ordini in quel modo. Si trovano qui unicamente per volontà loro».

Jacob ruggì minaccioso.

«Però sembrano piuttosto affezionati a te», disse Aro, «alla tua giovane compagna e alla tua... famiglia. Sembrano fedeli». Con la voce accarezzò piano quella parola.

«La loro missione è proteggere vite umane, Aro. Questo ne facilita la coesistenza con noi, ma non con voi. A meno che non mettiate in discussione il vostro stile di vita».

Aro rise, allegro. «Era solo un pensiero come un altro», ripeté. «Sai bene come vanno le cose. Nessuno di noi è in grado di controllare del tutto i desideri inconsci».

Edward fece una smorfia. «So bene come funziona. Conosco anche la differenza fra quel tipo di pensiero e quello che nasconde un secondo fine. Non potrebbe mai funzionare, Aro».

Jacob girò l'enorme testa verso Edward e dai denti gli sfuggì un debole lamento.

«È molto affascinato dall'idea dei... cani da guardia», spiegò Edward mormorando.

Ci fu un attimo di calma tombale e poi l'enorme radura si riempì del suono dei ringhi furiosi che salivano dal branco.

Ci fu un latrato secco di comando - forse veniva da Sam, ma non mi girai a controllare - e quelle rimostranze vennero tacitate, facendo calare un silenzio inquietante.

«Immagino che ciò risponda alla mia domanda», disse Aro, ridendo di nuovo. «Questo gruppo ha scelto da che parte stare».

Edward emise un sibilo e si sporse in avanti. Gli afferrai il braccio, chiedendomi cosa, nei pensieri di Aro, potesse causargli una reazione così violenta, mentre Felix e Demetri si rannicchiarono all'unisono, in guardia. Con un nuovo cenno Aro li tranquillizzò. Si rilassarono, come pure Edward.

«Ci sono così tante cose di cui parlare», disse Aro, assumendo improvvisamente il tono di un uomo d'affari oberato di lavoro, «così tante cose da decidere. Se voi e il vostro protettore peloso mi volete scusare, cari Cullen, devo conferire con i miei fratelli».

37

Stratagemmi

Aro non raggiunse le guardie che, ansiose, lo attendevano sul lato nord della radura. Fece loro cenno di avvicinarsi.

Edward cominciò immediatamente a retrocedere, tirando per il braccio me ed Emmett. Arretrammo spediti, senza distogliere lo sguardo dalla minaccia che avanzava. Jacob fu più lento: aveva il pelo ritto sulle spalle e mostrava le zanne ad Aro. Mentre ci ritiravamo, Renesmee gli afferrò la coda; la teneva come un guinzaglio, costringendolo a restare con noi. Raggiungemmo la nostra famiglia nello stesso momento in cui i mantelli scuri tornarono a circondare Aro.

Restavano solo cinquanta metri a dividerci: la distanza che chiunque di noi poteva superare con un salto in una sola frazione di secondo.

Caius cominciò subito a litigare con Aro.

«Come fai ad accettare questa ignominia? Perché restiamo impotenti davanti a un crimine così scandaloso, coperto da un inganno tanto ridicolo?». Teneva le braccia rigide sui fianchi, le dita chiuse come artigli. Mi chiesi perché non si limitava a toccare Aro per comunicare la sua opinione. C'era già una divisione nei loro ranghi? Eravamo così fortunati?

«Perché è tutto vero», gli disse Aro calmo. «Ogni singola parola. Hai visto quanti testimoni sono pronti a confermare di aver visto crescere e maturare questa bambina miracolosa nel breve tempo in cui l'hanno conosciuta. Di aver percepito il calore del sangue che le pulsa nelle vene». Con un ampio gesto Aro indicò tutta la nostra schiera, da Amun a Siobhan.

Caius reagì in modo strano alle parole rasserenanti di Aro, sussultando lievemente nel sentire la parola "testimoni". La rabbia svanì dai suoi lineamenti, sostituita da una freddezza calcolatrice. Fissò i testimoni dei Volturi con espressione che sembrava vagamente... nervosa.

Anch'io fissai la marmaglia inferocita e vidi subito che non si poteva più descrivere come tale: la frenesia di agire si era trasformata in confusione. Fra la folla ribollivano conversazioni sussurrate che cercavano di dare un significato a quanto era accaduto.

Caius era accigliato, assorto nei suoi pensieri. La sua espressione meditativa attizzava le fiamme della mia rabbia che covava sotto la cenere e al tempo stesso mi preoccupava. E se il corpo di guardia avesse agito di nuovo secondo qualche segnale invisibile, com'era successo quando marciava? Angosciata, ispezionai il mio scudo: mi sembrava impenetrabile quanto prima. Lo flettei a formare una cupola bassa e ampia che modellava un arco sopra la nostra compagnia.

Sentivo i pennacchi di luce acuminati nei punti in cui si trovavano la mia famiglia e i miei amici: ognuno aveva un suo carattere individuale, che immaginavo sarei riuscita a riconoscere successivamente, con un po' di pratica. Riconoscevo già quello di Edward: era il più brillante di tutti. A preoccuparmi era lo spazio vuoto fra un punto e l'altro: non c'erano barriere fisiche davanti allo scudo e, se uno qualsiasi dei Volturi dotato di poteri fosse riuscito a infilarvisi, avrebbe protetto soltanto me. La fronte mi s'increspò mentre tiravo con attenzione l'armatura elastica per avvicinarla. Carlisle era il più lontano: feci arretrare lo scudo centimetro per centimetro, cercando di avvolgerlo nel modo più aderente possibile intorno al suo corpo.

Il mio scudo aveva l'aria di voler collaborare. Abbracciò la sua figura; quando Carlisle si spostò di lato per stare più vicino a Tanya, l'elastico si estese insieme a lui, guidato dalla sua luce.

Affascinata, attirai verso di me altri fili della struttura, avvolgendola stretta intorno a ogni sagoma luminosa amica o alleata. Lo scudo aderiva di sua spontanea volontà, muovendosi insieme con loro.

Era passato solo un secondo; Caius stava ancora riflettendo.

«I licantropi», mormorò infine.

Con improvviso panico, mi accorsi che la maggior parte dei licantropi non erano protetti. Stavo per estendere lo scudo fino a loro quando capii che, stranamente, percepivo comunque le loro scintille. Incuriosita, provai a ritrarre lo scudo, finché Amun e Kebi, all'estremità più lontana del nostro gruppo, ne furono estromessi, insieme ai lupi. Usciti i due dalla barriera protettiva, le loro luci sparirono. Non esistevano più per quel nuovo senso. I lupi avevano ancora la loro fiamma luminosa; o meglio, metà di loro l'avevano. Mmm... Estesi di nuovo lo scudo e, non appena Sam fu sotto la sua copertura, le scintille dei lupi tornarono a brillare.

A quanto pareva, la loro mente era molto più interconnessa di quanto immaginavo. Se l'alfa era all'interno del mio scudo, la mente di tutti gli altri era altrettanto protetta.

«Ah, fratello...», Aro rispose alla frase di Caius con uno sguardo addolorato.

«Difenderai anche quell'alleanza, Aro?», chiese perentorio Caius. «I Figli della Luna sono nostri nemici giurati dai tempi dei tempi. Li abbiamo cacciati fin quasi a farli estinguere in Europa e in Asia. Eppure Carlisle incoraggia un rapporto familiare con questi parassiti, senza dubbio nel tentativo di spodestarci. Per meglio proteggere il suo guasto stile di vita».

Edward si schiarì la voce rumorosamente e Caius lo guardò torvo. Aro si mise una mano sottile e delicata sul viso, come fosse imbarazzato per l'altro anziano.

«Caius, è pieno giorno», fece notare Edward indicando Jacob. «Questi non sono Figli della Luna, è chiaro. Non hanno alcun rapporto con i tuoi nemici dell'altra parte del mondo».

«Allevate dei mutanti qui in zona», gli ribatté Caius.

Edward contrasse la mascella e poi la rilassò, infine rispose pacato: «Non sono nemmeno licantropi. Aro ti può raccontare tutto, se non mi credi».

Non erano licantropi? Lanciai un'occhiata disorientata a Jacob. Sollevò le spalle enormi, poi le lasciò cadere: il suo modo di fare spallucce. Neanche lui sapeva di cosa parlava Edward.

«Caro Caius, ti avrei chiesto di non insistere su questo argomento se mi avessi messo a parte dei tuoi pensieri», mormorò Aro. «Anche se quelle creature si ritengono dei licantropi, non lo sono. Il termine più appropriato per definirli sarebbe "mutaforma". La scelta della forma di lupo è stata un puro caso. Poteva benissimo essere un orso, un'aquila, o una pantera, quando accadde la prima mutazione. Queste creature non hanno proprio nulla a che vedere con i Figli della Luna. Hanno ereditato dai loro padri solo la capacità di mutare. È genetica: non continuano la loro specie infettando altri, come i veri licantropi».

Caius guardò Aro torvo, con rabbia e anche qualcosa di più: un'accusa di tradimento, forse.

«Conoscono il nostro segreto», disse con voce incolore.

Edward sembrava sul punto di rispondere a quell'accusa, ma Aro lo anticipò. «Sono creature del nostro mondo soprannaturale, fratello. Forse sono ancora più legati di noi alla segretezza: è altamente improbabile che ci denuncino. Stai attento, Caius. Le accuse pretestuose non ci portano da nessuna parte».

Caius respirò a fondo e annuì. Si scambiarono uno sguardo lungo ed espressivo.

Credevo di avere capito ciò che stava dietro le parole formulate con tanta attenzione da Aro. Le false accuse non avrebbero contribuito a convincere i testimoni presenti, da nessuna delle due parti: Aro stava esortando Caius a passare alla strategia successiva. Mi chiesi se il motivo che stava dietro alla tensione tangibile fra i due anziani - il rifiuto di Caius di condividere i suoi pensieri tramite il tatto - fosse che a Caius non importava molto di dare spettacolo, non quanto ad Aro. Se Caius considerasse il massacro imminente molto più essenziale di una reputazione immacolata.

«Voglio parlare con l'informatrice», annunciò Caius all'improvviso, rivolgendo lo sguardo verso Irina.

Irina non prestava attenzione alla conversazione fra Caius e Aro: aveva il viso contorto per la sofferenza, gli occhi fissi sulle sorelle, allineate e pronte a morire. Le si leggeva in faccia che ormai era consapevole della falsità totale della sua accusa.

«Irina», abbaiò Caius, infastidito dal fatto di doverne richiamare l'attenzione.

Lei alzò lo sguardo, scossa e istantaneamente impaurita.

Caius schioccò le dita.

Esitante, lei si spostò dalle frange esterne della formazione dei Volturi per trovarsi di nuovo in piedi davanti a Caius.

«E così, a quanto pare, le tue accuse erano alquanto infondate», esordì Caius.

Tanya e Kate si sporsero in avanti, ansiose.

«Mi dispiace», sussurrò Irina. «Avrei dovuto verificare ciò che vedevo. Ma non avevo la minima idea che...». Fece un gesto debole nella nostra direzione.

«Caro Caius, come credi che potesse indovinare in un attimo qualcosa di così strano e impossibile?», chiese Aro. «Chiunque di noi avrebbe tratto le stesse conclusioni».

Caius schioccò le dita in direzione di Aro per zittirlo.

«Sappiamo tutti che hai fatto un errore», disse lui brusco. «Intendevo parlare delle tue motivazioni».

Irina aspettò nervosa che continuasse, poi ripeté: «Le mie motivazioni?».

«Sì, anzitutto cosa ti ha spinto a spiarli».

Irina sussultò sentendo la parola "spiare".

«Eri in contrasto con i Cullen, vero?».

Lei guardò Carlisle con occhi disperati. «Sì, è così», confessò.

«Perché?», la incalzò Caius.

«Perché i licantropi avevano ucciso il mio amico», sussurrò. «E i Cullen non si sono fatti da parte per lasciarmelo vendicare».

«I mutaforma, si chiamano», la corresse Aro con gentilezza.

«Quindi i Cullen si sono alleati con i mutaforma contro quelli della nostra razza, persino contro l'amico di un'amica», sintetizzò Caius.

Sentii Edward che emetteva un suono nauseato sottovoce. Caius stava spuntando una voce della sua lunga lista, cercando un'accusa che resistesse.

Irina irrigidì le spalle. «Io la vedo così».

Caius aspettò di nuovo, poi la imbeccò: «Se volessi fare un reclamo formale contro i mutaforma, e contro i Cullen per averli sostenuti, questo sarebbe il momento opportuno». Fece un sorrisino crudele, in attesa che Irina gli fornisse la sua prossima scusa.

Forse Caius non capiva le vere famiglie, i rapporti basati sull'amore e non sull'amore per il potere. Forse aveva sopravvalutato la forza trascinante della vendetta.

Irina alzò di scatto la mascella e raddrizzò le spalle.

«No, non ho reclami da fare contro i lupi né contro i Cullen. Oggi voi siete venuti per distruggere una bambina immortale. Ma non esiste nessuna bambina immortale. È stato un mio errore e me ne assumo completamente la responsabilità. Ma i Cullen sono innocenti e non avete più motivo di trovarvi qui. Mi scuso infinitamente», disse rivolta a noi, poi si girò in direzione dei testimoni dei Volturi. «Non c'è stato alcun crimine. Non ci sono più motivi validi per la vostra presenza qui».

Mentre lei parlava Caius alzò la mano, in cui reggeva uno strano oggetto di metallo inciso e decorato.

Era un segnale. La reazione fu talmente veloce che assistemmo tutti increduli e sconvolti a ciò che accadde. Finì prima ancora che ci fosse il tempo di reagire.

Tre soldati dei Volturi fecero un balzo in avanti e Irina fu completamente oscurata dai loro mantelli grigi. Nello stesso istante, dalla radura si levò un orribile stridore metallico. Caius entrò strisciando al centro della mischia grigia, e quel grido stridulo e sconvolgente esplose subito in un sorprendente geyser di scintille e lingue di fuoco. I soldati arretrarono con un balzo da quell'inferno improvviso, riprendendo subito i propri posti nella linea perfettamente retta del corpo di guardia.

Caius restò solo a fianco dei resti ardenti di Irina e l'oggetto di metallo che teneva in mano emanava ancora una densa fiammata in direzione della pira.

Con un lieve scatto, il getto di fuoco che usciva dalla mano di Caius sparì. Dalla massa di testimoni dietro ai Volturi si levò un rantolo.

Noi eravamo troppo sbigottiti per fare alcun rumore. Un conto era sapere che la morte arrivava a velocità incredibile e inarrestabile; un altro vederla in diretta.

Caius sorrise, freddo. «Finalmente si è assunta tutta la responsabilità delle sue azioni».

Il suo sguardo balenò sulla nostra prima linea, soffermandosi rapidamente sulle sagome immobili di Tanya e Kate.

In quell'attimo capii che Caius non aveva mai sottovalutato il legame di una vera famiglia. Era questo lo stratagemma, non altri. Non voleva il reclamo di Irina: voleva la sua sfida. Una scusa per distruggerla, per scatenare la violenza che riempiva l'aria come una foschia spessa e combustibile. Lui aveva gettato il fiammifero.

La pace innaturale di quell'incontro traballava già peggio di un elefante su una fune. Se lo scontro fosse iniziato, non ci sarebbe stato modo di fermarlo. Sarebbe cresciuto fino a che uno dei due contendenti fosse stato annientato del tutto. Nella fattispecie, noi. Caius lo sapeva.

E anche Edward.

«Fermatele!», gridò Edward, precipitandosi ad afferrare per un braccio Tanya, mentre lei saltava verso il sorridente Caius con un folle grido di rabbia cruda. Non riuscì a scrollarsi di dosso Edward solo perché Carlisle le aveva stretto le braccia intorno alla vita.

«È troppo tardi per aiutarla», rifletté pressante mentre lei si dibatteva. «Non dargli quello che vuole!».

Trattenere Kate fu più difficile. Gridando senza parole come Tanya, si lanciò nel primo passo dell'attacco che sarebbe finito con la morte di tutti. Rosalie era la più vicina a lei ma, prima che potesse bloccarla, Kate se la scrollò di dosso con tanta violenza da scaraventarla a terra. Emmett prese Kate per il braccio e la scagliò giù, poi arretrò barcollando, con le ginocchia che cedevano. Kate si rialzò in piedi, sembrava inarrestabile.

Garrett le si avventò addosso, atterrandola di nuovo. La strinse con le braccia, serrando le mani intorno ai propri polsi. Vidi gli spasmi che gli percorrevano il corpo mentre lei gli dava la scossa. Lui alzò gli occhi al cielo, ma non mollò la presa.

«Zafrina», gridò Edward.

Lo sguardo di Kate si fece vacuo e le sue grida si trasformarono in gemiti. Tanya smise di fare resistenza.

«Ridammi la mia vista», sibilò Tanya.

Disperatamente, ma con tutta la delicatezza di cui ero capace, resi lo scudo ancora più attillato intorno alle scintille dei miei amici, togliendolo piano a Kate e cercando, nello stesso tempo, di mantenerlo intorno a Garrett, creando una pellicola sottile fra loro.

Allora Garrett riprese il controllo, tenendo ferma Kate sulla neve.

«Se ti lascio alzare, mi atterri di nuovo, Katie?», le sussurrò.

Per tutta risposta lei ringhiò, dibattendosi ancora come una forsennata.

«Ascoltatemi, Tanya, Kate», disse Carlisle in un sussurro lieve ma partecipe. «Al momento, vendicarla non serve a niente. Irina non vorrebbe vedervi sprecare così la vostra vita. Pensate a quello che state facendo. Se li assalite, moriremo tutti».

Tanya, le spalle incurvate per il dolore, si appoggiò a Carlisle. Kate finalmente restò immobile. Carlisle e Garrett continuarono a consolare le due sorelle con parole troppo pressanti per sembrare di conforto.

Tornai a rivolgere l'attenzione agli sguardi fissi che calavano pesanti sul nostro momento di confusione. Con la coda dell'occhio vedevo che Edward e tutti gli altri, esclusi Carlisle e Garrett, avevano di nuovo assunto la posizione di guardia.

Lo sguardo più truce di tutti arrivava da Caius, che fissava incredulo Kate e Garrett a terra sulla neve. Anche Aro li guardava e sul viso gli si leggeva un'espressione incredula. Sapeva di cosa era capace Kate. Aveva sentito la sua potenza nei ricordi di Edward.

Capiva cosa stava succedendo ora? Capiva che il mio scudo era cresciuto in forza e capacità di penetrazione ben più di quanto Edward mi sapeva capace? O pensava che Garrett avesse sviluppato una propria forma d'immunità?

Il corpo di guardia dei Volturi non era più sull'attenti: erano accucciati, pronti a lanciare il contrattacco appena avessimo agito.

Dietro di loro, quarantatré testimoni assistevano con espressioni molto diverse da quelle che avevano quando erano entrati nella radura. La confusione si era trasformata in sospetto. L'uccisione di Irina, veloce come la luce, li aveva scossi. Che male aveva fatto?

Senza la reazione immediata su cui Caius aveva contato per distogliere l'attenzione dal suo gesto sconsiderato, i testimoni dei Volturi si ritrovavano a chiedersi cosa stesse succedendo. Aro guardò di sfuggita alle sue spalle mentre lo osservavo e il volto tradì un barlume di contrarietà. Il suo bisogno di pubblico si era ritorto contro di lui.

Sentii Stefan e Vladimir mormorare esultanti per il disagio di Aro.

Lui ovviamente era preoccupato di mantenere la sua patina di correttezza, come avevano detto i rumeni. Ma non credevo che i Volturi ci avrebbero lasciati in pace solo per salvarsi la reputazione. Dopo aver finito con noi, sicuramente erano pronti a massacrare i loro testimoni. Provai una pietà strana e repentina per la massa di sconosciuti che i Volturi si erano portati dietro perché ci vedessero morire. Demetri avrebbe dato la caccia a tutti finché anche loro non si fossero estinti.

Per Jacob e Renesmee, per Alice e Jasper, per Alistair e per tutti gli sconosciuti che non avevano saputo quanto avrebbero pagato quella giornata, Demetri doveva morire.

Aro toccò piano la spalla di Caius. «Irina è stata punita per aver fornito falsa testimonianza contro questa bambina». Quindi sarebbe stata quella la loro scusa. Continuò. «Non trovi che dovremmo tornare a occuparci delle questioni più imminenti?».

Caius si raddrizzò e la sua espressione s'irrigidì fino a diventare inintelligibile. Guardava davanti a sé senza dire nulla. Il suo viso, stranamente, mi ricordava quello di una persona che aveva appena scoperto di essere stata declassata.

Aro fluttuò verso le prime file e Renata, Felix e Demetri si mossero automaticamente con lui.

«Tanto per essere precisi», disse, «vorrei parlare con alcuni dei tuoi testimoni. Le formalità le conosci, vero?». Liquidò il discorso con un gesto della mano.

Due fatti successero contemporaneamente. Caius puntò lo sguardo su Aro e sfoderò di nuovo quel suo sorrisino crudele. Ed Edward sibilò, stringendo i pugni così forte da dare l'impressione che le ossa delle nocche potessero spuntare da quella pelle dura come il diamante.

Morivo dal bisogno di chiedergli cosa stesse succedendo, ma Aro era abbastanza vicino da udire anche il sussurro più tenue. Vidi Carlisle che fissava ansioso il viso di Edward, poi anche la sua espressione s'indurì.

Mentre Caius era andato a tentoni usando accuse inutili e tentativi scriteriati per scatenare lo scontro, Aro doveva aver escogitato una strategia più efficace.

Aro si mosse come un fantasma attraversando la neve fino all'estremità occidentale del nostro schieramento, fermandosi a una decina di metri da Amun e Kebi. I lupi vicini rizzarono il pelo, rabbiosi, ma mantennero la posizione.

«Ah, Amun, mio vicino delle terre del Sud!», disse cordiale. «È passato tanto tempo da quando sei venuto a trovarmi».

Amun era immobile per l'ansia, Kebi una statua al suo fianco. «Il tempo non significa molto: non mi accorgo mai del suo trascorrere», disse Amun senza muovere le labbra.

«È verissimo», convenne Aro. «Ma forse c'era un altro motivo per cui vi siete tenuti alla larga?».

Amun non parlò.

«Organizzare i nuovi arrivati per formare un clan richiede davvero molto tempo. Io lo so benissimo! Sono felice di avere altre persone che si occupino di quella seccatura. E sono felice che quelli che si sono aggregati di recente si siano ambientate così bene. Mi sarebbe piaciuto che me li presentassi. Sono sicuro che stavi per venirmi a trovare molto presto».

«Ma certo», disse Amun con un tono talmente privo di emozioni che era impossibile stabilire se il suo assenso contenesse sarcasmo o paura.

«Be', ora siamo qui tutti insieme! Non è una circostanza squisita?».

Amun annuì inespressivo.

«Ma purtroppo il motivo della tua presenza qui non è altrettanto piacevole. Carlisle ti ha chiamato per fare da testimone?».

«Sì».

«E di cosa sei stato testimone per lui?».

Amun parlò con la stessa gelida mancanza di emozioni. «Ho osservato la bambina in questione. Quasi immediatamente è stato palese che non fosse una bambina immortale...».

«Forse dovremmo definire la nostra terminologia», disse Aro, «ora che, a quanto pare, ci sono nuove classificazioni. Parlando di bambina immortale, naturalmente, intendi una bambina umana che è stata morsa e quindi trasformata in vampiro».

«Intendo proprio questo».

«Che altro hai osservato sulla bambina?».

«Le stesse immagini che di sicuro hai visto nella mente di Edward. Che la bambina è la sua figlia naturale. Che cresce. Che apprende».

«Sì, sì», disse Aro, con una traccia d'impazienza in quel tono altrimenti affabile. «Ma nello specifico, durante le prime settimane passate qui, cosa hai visto?».

Amun increspò la fronte. «Che cresce... in fretta».

Aro sorrise. «E ritieni che dovremmo permetterle di vivere?».

Mi sfuggì un sibilo dalle labbra, e non fui l'unica. Metà dei vampiri fra le nostre file fece eco alla mia protesta. Fu un sordo ribollire di rabbia sospeso nell'aria. Dall'altra parte del prato, alcuni testimoni dei Volturi emisero lo stesso suono. Edward fece un passo indietro e mi strinse il polso con la mano, per trattenermi.

Il rumore non indusse Aro a voltarsi, ma Amun si guardò intorno, a disagio.

«Non sono venuto qui per emettere sentenze», rispose ambiguo.

Aro ridacchiò. «Mi basta la tua opinione».

Amun sollevò il mento. «Secondo me, la bambina non rappresenta un pericolo. Impara ancor più rapidamente di quanto impieghi a crescere».

Aro annuì, meditabondo. Dopo un attimo si girò e se ne andò.

«Aro?», lo chiamò Amun.

Aro tornò indietro con una giravolta. «Sì, amico mio?».

«Ho fornito la mia testimonianza. Il mio compito qui è finito. Io e la mia compagna ora vorremmo congedarci».

Aro sorrise cordiale. «Ma certo. Sono felice che abbiamo avuto l'occasione di conversare. E sono certo che ci rivedremo presto».

Le labbra di Amun erano un'unica riga contratta mentre chinava il capo, prendendo atto di quella malcelata minaccia. Sfiorò il braccio a Kebi, poi i due corsero rapidi verso l'estremità meridionale del prato e sparirono fra gli alberi. Sapevo che non avrebbero smesso di correre tanto presto.

Aro stava ripercorrendo il nostro schieramento con movimenti lievi, diretto a est, mentre le sue guardie incombevano piene di tensione. Si fermò quando si trovò davanti alla figura massiccia di Siobhan.

«Salve, cara Siobhan. Sei carina come sempre».

Siobhan inclinò il capo, in attesa.

«E tu?», le chiese. «Risponderesti alle mie domande come ha fatto Amun?».

«Certo», rispose Siobhan. «Ma forse aggiungerei dell'altro. Renesmee ha una comprensione chiara dei limiti. Non rappresenta un pericolo per gli umani, anzi, s'integra con loro molto meglio di noi. Non rischia di tradire il nostro anonimato in nessun modo».

«Non te ne viene in mente proprio nessuno?», chiese serio Aro.

Edward ringhiò, un suono basso e lacerante che veniva dal fondo della gola.

Gli occhi cremisi e velati di Caius si accesero.

Renata si avvicinò protettiva al suo signore.

Garrett lasciò libera Kate di fare un passo avanti, ignorando la sua mano mentre cercava di trattenerlo.

Siobhan rispose piano: «Non capisco cosa intendi».

Aro arretrò silenzioso e leggero, con noncuranza ma diretto verso il suo corpo di guardia. Renata, Felix e Demetri lo seguivano come un'ombra.

«Non è stata infranta alcuna legge», disse Aro con voce conciliante, ma capivamo tutti che stava per arrivare una precisazione.

Soffocai la rabbia che cercava di risalirmi a unghiate lungo la gola per sfogare in un ringhio la volontà di sfida. Scagliai tutta la furia nel mio scudo, ispessendolo e assicurandomi che tutti fossero protetti.

«Non è stata infranta alcuna legge», ripete Aro. «Ne consegue tuttavia che non c'è pericolo? No». Scosse piano la testa. «Questo è un problema distinto».

L'unica reazione fu il tendersi di nervi già al lumicino e Maggie, al limite della nostra banda di combattenti, scosse il capo con una rabbia lenta.

Aro camminava a grandi passi, riflettendo, e sembrava che fluttuasse invece di toccare la terra con i piedi. Notai che a ogni passaggio si avvicinava sempre più alla protezione del suo corpo di guardia.

«La bambina è unica... Totalmente e assurdamente unica. Sarebbe un tale spreco distruggere una cosa così adorabile. Soprattutto quando ci sarebbe così tanto da imparare...». Sospirò, come se non volesse continuare. «Però un pericolo esiste e non si può semplicemente ignorare».

Nessuno rispose alla sua affermazione. Calò un silenzio di tomba mentre proseguiva in un monologo che sembrava recitare solo per sé.

«Quale ironia della sorte che, al progredire degli umani, mano a mano che la loro fede nella scienza cresce e controlla il loro mondo, su di noi incomba sempre meno il pericolo di farci scoprire. Eppure, mentre diventiamo sempre più disinibiti grazie alla loro incredulità nei confronti del soprannaturale, essi divengono così forti con la loro tecnologia che, se lo volessero, potrebbero davvero costituire una minaccia per noi, e persino distruggere alcuni di noi. Per migliaia e migliaia di anni la nostra segretezza è stata soprattutto una questione di convenienza, di praticità, e non di vera e propria sicurezza. Quest'ultimo secolo rozzo e rabbioso ha dato alla luce armi così potenti da mettere in pericolo persino gli immortali. Oggi la fama di esseri mitologici di cui godiamo, in verità, ci protegge dalle creature deboli cui diamo la caccia. Questa bambina portentosa...», e sollevò il palmo della mano come se avesse dovuto appoggiarlo su Renesmee, anche se si trovava a quaranta metri di distanza da lei ed era quasi rientrato nella formazione dei Volturi. «Ah, se potessimo conoscere le sue potenzialità, sapere con certezza assoluta che resteranno sempre avvolte dall'oscurità che ci protegge. Ma non sappiamo niente di ciò che diventerà! I suoi stessi genitori sono angustiati dalla paura per il suo futuro. Non possiamo sapere con certezza cosa diventerà da grande». Fece una pausa, guardando prima i nostri testimoni, e poi, in modo eloquente, i suoi. La voce imitava molto bene qualcuno che era lacerato dalle proprie parole.

Senza staccare gli occhi dai suoi testimoni, proseguì. «Solo ciò che si conosce è sicuro. Solo ciò che si conosce è tollerabile. Ciò che è sconosciuto è... un punto debole».

Il sorriso di Caius si allargò, malvagio.

«Stai traendo conclusioni affrettate, Aro», disse Carlisle, con voce cupa.

«Pace, amico mio», disse Aro sorridente, il volto gentile e la voce cortese come sempre. «Non precipitiamo le cose. Guardiamole da tutti i punti di vista».

«Posso offrire un mio punto di vista?», supplicò Garrett in tono pacato, facendo un altro passo avanti.

«Prego, nomade», disse Aro, con un cenno di assenso.

Garrett alzò il mento. Gettò lo sguardo sulla massa accalcata in fondo al prato e si rivolse direttamente ai testimoni dei Volturi.

«Sono venuto qui su richiesta di Carlisle, come gli altri, per fare da testimone», disse. «Il che di sicuro non si rende più necessario, per quanto riguarda la bambina. Vediamo tutti che cos'è. Ma sono rimasto a fare da testimone a qualcos'altro. A voi». Puntò il dito verso i vampiri diffidenti. «Conosco almeno due di voi - Makenna e Charles - e vedo che molti altri sono girovaghi, vagabondi come me. Che non rispondono a nessun padrone. Riflettete attentamente su quel che vi dico ora.

Questi anziani non sono venuti qui in cerca di giustizia come vi hanno detto. Noi l'avevamo già sospettato, e ora ce ne danno la prova. Sono arrivati qui fuorviati, eppure con una scusa valida per l'azione che avevano in programma. Ora siate testimoni del fatto che cercano scuse deboli per proseguire con la loro vera missione. Siate testimoni del fatto che si sforzano di trovare una giustificazione per il loro vero scopo: distruggere questa famiglia». Con un cenno indicò Carlisle e Tanya.

«I Volturi sono venuti a eliminare quelli che percepiscono come rivali. Forse anche voi, come me, guardate gli occhi dorati dei membri di questo clan e ne restate stupiti. È vero, è difficile capirli. Ma gli anziani guardano e vedono qualcosa al di là della loro strana scelta. Vedono il vero potere.

Con i miei occhi sono stato testimone dei legami che corrono fra i membri di questa famiglia: e dico famiglia, non congrega. Questi strani vampiri dagli occhi dorati rinnegano la propria stessa natura. Ma in cambio hanno forse trovato qualcosa che vale ancora di più della semplice gratificazione del desiderio? Nel tempo passato qui, li ho studiati un pochino e mi sembra che la qualità intrinseca di questi intensi legami di famiglia, anzi, ciò che li rende possibili, sia il carattere pacifico di una vita fatta di sacrifici. Qui non ci sono aggressioni come abbiamo osservato tutti nei grandi clan meridionali, cresciuti e diminuiti rapidamente a furia di faide selvagge. Non c'è sete di dominio. E Aro lo sa meglio di me».

Osservai il viso di Aro mentre le parole di Garrett lo accusavano, in preoccupata attesa di una reazione di qualche tipo. Ma Aro aveva un'espressione di gentilezza divertita, come se esercitasse la pazienza perché il bambino capriccioso si accorgesse che nessuno prestava attenzione alla sua scenata.

«Carlisle ha garantito a noi tutti, quando ci ha detto cosa ci aspettava, che non ci aveva chiamati qui per combattere. Questi testimoni», Garrett indicò Siobhan e Liam, «hanno accettato di fornire le prove, di rallentare l'avanzata dei Volturi con la loro presenza, così che Carlisle potesse avere modo di perorare la sua causa. Ma alcuni di noi si sono chiesti», e qui scoccò un'occhiata al viso di Eleazar, «se il fatto che Carlisle avesse la verità dalla sua potesse bastare a fermare la cosiddetta giustizia. I Volturi sono qui per proteggere la sicurezza del nostro segreto, o per proteggere il loro potere? Sono venuti a distruggere una creazione illecita, o uno stile di vita? Non potrebbero accontentarsi del fatto che il pericolo si è rivelato un semplice malinteso? Oppure procederanno anche senza la scusa di fare giustizia?

Abbiamo già la risposta a tutte queste domande. L'abbiamo sentita nelle parole mendaci di Aro - una dei nostri ha il dono di sapere per certo chi mente - e ormai la vediamo nel sorriso impaziente di Caius. Il loro corpo di guardia è soltanto un'arma priva d'intelligenza, uno strumento della sete di dominio dei loro padroni.

Ora dunque ci sono altre domande cui voi dovete assolutamente rispondere. Chi vi comanda, nomadi? Rispondete alla volontà di qualcun altro, oltre alla vostra? Siete liberi di scegliere la vostra strada, o saranno i Volturi a decidere delle vostre vite? Io sono venuto per testimoniare. Ora rimango per combattere. Ai Volturi non importa niente che muoia una bambina. Vogliono che muoia il nostro libero arbitrio».

Poi si girò verso gli anziani. «Venite, dunque, vi dico! Finiamola con le false razionalizzazioni. Siate sinceri nelle vostre intenzioni e noi lo saremo nelle nostre. Noi difenderemo la nostra libertà. Voi deciderete se attaccarla o meno. Scegliete ora, e mostrate a questi testimoni qual è il vero problema in discussione qui».

Guardò di nuovo i testimoni dei Volturi, scrutando ogni viso a fondo. Il potere delle sue parole era evidente nelle loro espressioni. «Potreste pensare di unirvi a noi. Se credete che i Volturi vi lasceranno restare vivi a raccontare ciò che è successo qui, vi sbagliate. Potremmo essere tutti annientati», disse alzando le spalle, «oppure no. Forse le nostre forze sono meno impari di quanto credono. Forse i Volturi finalmente hanno trovato qualcuno in grado di tener loro testa. In ogni caso, vi prometto questo: se noi cadremo, sarà lo stesso per voi».

Terminò il suo discorso accalorato facendo un passo indietro per tornare al fianco di Kate e poi saltò in avanti e si rannicchiò in guardia, pronto al massacro.

Aro sorrise. «Proprio un bel discorso, mio rivoluzionario amico».

Garrett rimase in posizione di attacco. «Rivoluzionario?», ruggì. «Contro chi mi starei ribellando, se è lecito chiederlo? Sei forse il mio re? Vuoi che ti chiami Signore anch'io, come quei leccapiedi delle tue guardie?».

«Pace, Garrett», disse Aro tollerante. «Mi riferivo solo ai tempi in cui sei nato. Sei ancora un patriota, vedo».

Garrett gli rispose con un'occhiata feroce.

«Chiediamolo ai nostri testimoni», propose Aro. «Ascoltiamo i loro pensieri prima di prendere una decisione. Dite, amici», ci diede le spalle con naturalezza, avanzando di qualche metro in direzione della sua massa di osservatori nervosi, che ora ondeggiava sempre più vicina al limitare della foresta, «cosa ne pensate di tutto ciò? Posso garantire che la bambina non è quello che temevamo. Ci assumiamo il rischio di lasciarla sopravvivere? Mettiamo in pericolo il nostro mondo per conservare intatta la loro famiglia? Oppure ha ragione lo schietto Garrett? Vi unirete a loro per contrastare la nostra improvvisa sete di dominio?».

I testimoni incrociarono il suo sguardo con espressioni caute. Una donna minuta dai capelli neri diede un'occhiata fugace all'uomo biondo scuro che le stava a fianco.

«Queste sono le uniche scelte che abbiamo?», chiese d'un tratto, tornando con lo sguardo ad Aro. «Dichiararci d'accordo con te, o combattere contro di te?».

«Certo che no, affascinante Makenna», disse Aro, apparentemente scandalizzato al pensiero che qualcuno avesse tratto quella conclusione. «Potete andarvene in pace, naturalmente, come ha fatto Amun, anche se non siete d'accordo con la decisione del consiglio».

Makenna guardò di nuovo il suo compagno in viso e lui ebbe un cenno d'assenso.

«Non siamo venuti qui per combattere». Fece una pausa, espirò, poi aggiunse: «Siamo venuti qui a fare da testimoni. E la nostra testimonianza è che la famiglia sotto processo è innocente. Tutto ciò che Garrett ha affermato è vero».

«Ah», disse Aro triste. «Mi spiace che tu ci veda così. Ma è questa la natura del nostro compito».

«Non è ciò che vedo, ma ciò che sento», disse il biondo compagno di Makenna con voce acuta e nervosa. Guardò Garrett. «Garrett dice che hanno i mezzi per scoprire le bugie. Anch'io so quando sento una verità e quando invece non è così». Con gli occhi spaventati si avvicinò alla sua compagna, in attesa della reazione di Aro.

«Non temerci, amico Charles. Senza dubbio il patriota crede davvero in quello che dice», ridacchiò Aro spensierato, e Charles affilò lo sguardo.

«Questa è la nostra testimonianza», disse Makenna. «Ora ce ne andiamo».

Lei e Charles arretrarono lenti, senza girarsi prima di sparire alla vista fra gli alberi. Un altro sconosciuto cominciò a ritirarsi per quella stessa via, poi altri tre gli corsero dietro.

Studiai i trentasette vampiri rimasti. Alcuni sembravano troppo confusi per prendere una decisione. Ma la maggioranza appariva fin troppo consapevole della direzione presa da questa sfida. Immaginai che stessero rinunciando al vantaggio iniziale per capire con precisione chi li avrebbe poi inseguiti.

Ero sicura che anche Aro lo avesse compreso. Distolse lo sguardo e tornò dal suo corpo di guardia a passi lunghi e misurati. Si fermò davanti a loro e li arringò con voce limpida.

«Siamo in minoranza, carissimi», disse. «Non possiamo aspettarci alcun aiuto dall'esterno. Dobbiamo lasciare la questione irrisolta per salvarci la vita?».

«No, Signore», sussurrarono all'unisono.

«La protezione del nostro mondo può valere la probabile perdita di alcuni di noi?».

«Sì», mormorarono. «Non abbiamo paura».

Aro sorrise e si girò verso i suoi compagni nerovestiti.

«Fratelli», disse cupo, «ci sono molti fattori da valutare».

«Consultiamoci», disse ansioso Caius.

«Consultiamoci», ripeté Marcus, in tono indifferente.

Aro ci voltò di nuovo le spalle, rivolgendosi verso gli altri anziani. Si presero per mano e formarono un triangolo avvolto di nero.

Non appena l'attenzione di Aro fu catturata da quel muto consulto, altri due loro testimoni si dileguarono in silenzio nella foresta. Per il loro bene sperai che fossero molto veloci.

Quindi il momento era giunto. Con cura, mi sciolsi dall'abbraccio di Renesmee.

«Ti ricordi quello che ti ho detto?», le chiesi.

Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma annui. «Ti voglio tanto bene», sussurrò.

Ora Edward ci guardava, gli occhi color topazio spalancati. Jacob ci fissava con la coda dell'occhio grande e scuro.

«Anch'io ti voglio tanto bene», dissi, poi toccai il suo medaglione. «Più della mia stessa vita». La baciai sulla fronte.

Jacob gemette, a disagio.

Mi alzai in punta di piedi e gli sussurrai all'orecchio: «Aspetta che siano completamente distratti, poi scappa con lei. Allontanati da questo posto più che puoi. Quando ti sei allontanato il più possibile a piedi, lei ha il necessario per farvi salire su un aereo».

I volti di Edward e Jacob erano maschere d'orrore pressoché identiche, tranne il fatto che una apparteneva a un animale.

Renesmee si sporse verso Edward e lui la strinse fra le braccia. Si abbracciarono forte.

«È questo che mi tenevi nascosto?», mi sussurrò sopra la testa di nostra figlia.

«Non a te, ad Aro», mormorai.

«Per via di Alice?».

Annuii.

Sul suo viso si dipinse una dolorosa smorfia di comprensione. Forse la stessa che era apparsa sul mio volto quando finalmente avevo collegato tutti gli indizi forniti da Alice?

Jacob ringhiava piano, un suono stridulo e basso, ma regolare e ininterrotto come se stesse facendo le fusa. Aveva il pelo del collo ritto e i denti scoperti.

Edward baciò Renesmee sulla fronte e sulle guance, poi la sollevò per issarla sulla schiena di Jacob. Lei salì con agilità, tenendosi alla sua pelliccia, e trovò posto facilmente nell'incavo fra quelle enormi scapole.

Jacob si girò verso di me, gli occhi espressivi pieni di tormento, con quel ruggito tonante che gli straziava ancora il petto.

«Sei l'unico cui potremmo affidarla», gli mormorai. «Se tu non l'amassi tanto, non potrei mai sopportare questo momento. So che sei in grado di proteggerla, Jacob».

Gemette di nuovo e chinò la testa per darmi dei colpetti sulla spalla.

«Lo so», sussurrai. «Anch'io ti voglio tanto bene, Jake. Sarai sempre il mio testimone di nozze».

Sulla pelliccia rossastra sotto l'occhio gli scorreva una lacrima grande quanto una palla da baseball.

Edward posò il capo sulla stessa spalla dove aveva collocato Renesmee. «Addio, Jacob, fratello mio... figlio mio».

Agli altri non sfuggì quella scena d'addio. Avevano gli occhi fissi sul triangolo nero silenzioso, ma capivo che ci stavano ascoltando.

«Allora non c'è speranza?», chiese Carlisle in un sussurro. Nella sua voce non c'erano tracce di paura. Solo risolutezza e rassegnazione.

«Certo che c'è», gli risposi. E potrebbe essere vero, mi dissi. «Io conosco solo il destino che spetta a me».

Edward mi prese la mano. Sapeva che anche lui era compreso in quel destino. Parlando del mio destino, era ovvio che intendessi entrambi. Eravamo le due metà di un intero.

Esme, dietro di me, respirava a fatica. Ci passò davanti, sfiorandoci il viso in una carezza, per andare a mettersi a fianco di Carlisle e stringergli la mano.

Di colpo fummo circondati di mormorii di addio e dichiarazioni di affetto.

«Se sopravviviamo a tutto questo», sussurrò Garrett a Kate, «ti seguirò ovunque, donna».

«Adesso si è deciso a dirmelo», borbottò lei.

Rosalie ed Emmett si diedero un bacio rapido ma appassionato.

Tia accarezzò Benjamin sul viso. Lui ricambiò il sorriso, sereno, trattenendo la sua mano contro la guancia.

Non vidi tutte le espressioni d'amore e di dolore. Mi distrasse un'improvvisa pressione che picchiettava contro l'esterno del mio scudo. Non capivo da dove venisse, ma sembrava diretta verso gli estremi del nostro gruppo, in particolare Siobhan e Liam. La pressione non creò danni e poi sparì.

Non ci fu alcun mutamento nelle forme silenziose e immobili degli anziani a consiglio. Ma forse qualche segnale mi era sfuggito.

«State pronti», sussurrai agli altri. «Si comincia».

38

Il potere

«Chelsea sta cercando di rompere i nostri legami», sussurrò Edward. «Ma non riesce a trovarli. Non ci sente...». Spostò lo sguardo su di me. «Sei tu con il tuo scudo?».

Gli sorrisi risoluta. «Sto dominando tutta la situazione».

Improvvisamente Edward si staccò da me e con la mano si sporse verso Carlisle. Al tempo stesso, accusai una stoccata più forte contro lo scudo, nel punto in cui avvolgeva protettivo la luce di Carlisle. Non fu dolorosa, ma nemmeno piacevole.

«Carlisle? Tutto bene?», gli chiese Edward angosciato.

«Sì. Perché?».

«Jane», rispose Edward.

Nel momento stesso in cui pronunciò il suo nome, lei lanciò una dozzina di attacchi acuminati nel giro di un secondo, che martellarono tutto lo scudo elastico, diretti verso dodici punti luminosi diversi. Poi allentai la presa per verificare che lo scudo non avesse subito danni. A quanto pareva, Jane non era stata in grado di perforarlo. Mi guardai intorno rapida; stavano tutti bene.

«Incredibile», disse Edward.

«Ma perché non aspettano che decidano?», sibilò Tanya.

«È la loro procedura normale», rispose brusco Edward. «Di solito rendono inoffensive le persone sotto processo, in modo che non possano fuggire».

Guardai dalla parte di Jane, che fissava il nostro gruppo furiosa e incredula. Ero piuttosto sicura che, a parte me, non avesse mai visto nessuno restare in piedi dopo un suo attacco feroce.

Probabilmente non fu un gesto molto maturo. Ma immaginai che Aro ci avrebbe messo un secondo a intuire, se già non l'aveva fatto, che il mio scudo era molto più potente di quanto sapesse Edward: avevo già un bersaglio gigantesco disegnato sulla fronte e non c'era più motivo per cercare di mantenere segreto quello che ero capace di fare. Quindi scoccai un sorriso compiaciuto in direzione di Jane.

Lei strinse gli occhi e sentii un'altra fitta di pressione, questa volta diretta in particolare a me.

Schiusi di più le labbra, mostrandole i denti.

Jane si fece sfuggire un grido acuto misto a un ringhio. Tutti sussultarono, persino il disciplinato corpo di guardia. Ma non gli anziani, che non si distolsero minimamente dal loro conciliabolo. Il suo gemello la trattenne per il braccio mentre si accucciava, pronta a balzare.

I rumeni cominciarono a sghignazzare maligni, pregustando quello che sarebbe successo.

«Te l'ho detto che questo era il nostro momento», disse Vladimir a Stefan.

«Guarda un po' che faccia fa quella strega», ridacchiò Stefan.

Alec confortò la sorella con una pacca sulla spalla, poi la prese sottobraccio. Si girò verso di noi, imperturbato, con aria angelica.

Mi aspettavo una pressione, un qualche segno del suo attacco, ma non avvertii nulla. Continuava a fissare nella nostra direzione, con il bel viso inalterato. Ci stava attaccando? Stava perforando il mio scudo? Ero l'unica che riusciva ancora a vederlo? Strinsi la mano a Edward.

«Tutto bene?», gli chiesi con voce strozzata.

«Sì», sussurrò.

«Alec ci sta provando?».

Edward annuì. «Il suo dono è più lento di quello di Jane. Avanza strisciando. Ci raggiungerà fra qualche secondo».

Fu allora che lo vidi, quando seppi cosa dovevo cercare.

Sopra la neve fluiva lentamente una strana foschia limpida, quasi invisibile sullo sfondo bianco. Mi ricordava un miraggio: una lieve distorsione della vista, un barlume. Allargai lo scudo oltre Carlisle e il resto della nostra prima linea, perché temevo la vicinanza di quella foschia furtiva nel momento in cui ci avrebbe colpiti. E se fosse riuscita a incunearsi attraverso la mia protezione intangibile? Dovevamo forse fuggire?

Un brontolio basso attraversò il terreno sotto i nostri piedi e una folata di vento soffiò via la neve in turbini improvvisi nello spazio fra la nostra postazione e quella dei Volturi. Benjamin aveva visto la minaccia strisciante e stava cercando di dirottare la foschia lontano da noi. La neve rendeva facile vedere in che direzione lui scagliava il vento, ma la nebbia non reagiva in nessun modo. Era come l'aria che soffia senza lasciare traccia attraverso un'ombra: l'ombra era immune.

La formazione triangolare degli anziani finalmente si separò quando, con un atroce cigolio, in mezzo alla radura si aprì una faglia profonda e stretta, una lunga linea a zigzag. Per un attimo la terra mi tremò sotto i piedi. Le folate di neve precipitarono nel buco, ma la foschia riuscì a passarci sopra, immune alla gravità come lo era al vento.

Aro e Caius spalancarono gli occhi a vedere la terra che si apriva. Marcus, invece, non tradiva alcuna emozione.

Tacquero, in evidente attesa che la foschia ci raggiungesse. Il vento sibilava più forte, ma non cambiava il percorso della foschia. Ora Jane sorrideva.

Poi la foschia si scontrò contro un muro.

Ne sentii il sapore appena toccò il mio scudo: aveva un gusto denso, dolce, stucchevole. Mi ricordava vagamente la novocaina quando mi desensibilizzava la lingua.

La foschia si arricciò verso l'alto, cercando una falla, un punto debole. Non ne trovò. Le dita della nebbia perlustrarono in alto e intorno a sé, cercando un modo per entrare, e nel farlo evidenziavano le proporzioni incredibili dello schermo protettivo.

Da entrambi i lati dello squarcio creato da Benjamin la gente rimase a bocca aperta.

«Bel colpo, Bella!», esultò Benjamin a voce bassa.

Mi ritornò il sorriso.

Vedevo gli occhi socchiusi di Alec, il dubbio dipinto per la prima volta su quei lineamenti, mentre la sua foschia mulinava innocua intorno ai bordi del mio scudo.

E fu allora che capii che ce la potevo fare. Ovvio, sarei diventata l'obiettivo numero uno, la prima a dover morire, ma finché resistevo eravamo ben più che superiori rispetto ai Volturi. Noi avevamo ancora Benjamin e Zafrina, loro neppure un aiuto soprannaturale, finché reggevo.

«Dovrò assolutamente concentrarmi», sussurrai a Edward. «Quando arriveremo al corpo a corpo, sarà più difficile mantenere lo scudo intorno alle persone giuste».

«Te li terrò lontani».

«No. Tu devi assolutamente occuparti di Demetri. Sarà Zafrina a tenermeli lontani».

Zafrina annuì seria. «Nessuno toccherà questa ragazza», promise a Edward.

«Mi occuperei io di Jane e Alec, ma sono più utile qui».

«Jane è mia», sibilò Kate. «Ha bisogno di essere ripagata con la sua stessa moneta».

«E Alec è in debito di varie vite con me, ma posso accontentarmi della sua», ruggì Vladimir dall'altra parte. «È tutto mio».

«Io voglio solo Caius», disse pacata Tanya.

Gli altri cominciarono a spartirsi gli avversari a loro volta, ma in breve vennero interrotti.

Aro, fissando calmo la foschia inutile di Alec, finalmente parlò.

«Prima che votiamo...», esordì.

Scossi la testa rabbiosa. Ero stufa di quel balletto. In me si stava riaccendendo la sete di sangue e mi dispiaceva di dover restare ferma, perché così sarei stata molto più utile agli altri. Desideravo disperatamente di combattere.

«...lasciate che vi ricordi», continuò Aro, «che, qualunque sia la decisione del consiglio, non occorre che ne consegua alcuna violenza qui».

Edward proruppe in una risata tetra.

Aro lo fissò triste. «Sarebbe uno spreco deplorevole per la nostra specie perdere qualcuno di voi. Specialmente tu, giovane Edward, e la tua compagna neonata. I Volturi sarebbero felici di accogliere molti di voi fra le loro schiere. Bella, Benjamin, Zafrina, Kate. Avete molte possibilità di scelta davanti a voi. Prendetele in considerazione».

I tentativi di Chelsea per separarci svolazzavano impotenti contro il mio scudo.

Aro passò in rassegna con lo sguardo i nostri occhi inflessibili, in cerca di qualsiasi segnale di esitazione. A giudicare dalla sua espressione, non ne trovò.

Intuivo il suo desiderio ardente di tenersi me ed Edward, di imprigionarci proprio come aveva sperato di ridurre in schiavitù Alice. Ma questa battaglia era troppo importante. Se sopravvivevo, lui non avrebbe vinto. Ero felicissima di essere così potente da obbligarlo a scegliere di uccidermi.

«Votiamo, dunque», disse, con evidente riluttanza.

Caius parlò in fretta, impaziente. «La bambina è una variabile impazzita. Non ci sono motivi per permettere che esista un rischio del genere. Deve essere distrutta insieme a tutti quelli che la proteggono». Sorrise speranzoso.

Repressi un grido di sfida in risposta al suo ghigno crudele.

Marcus alzò gli occhi indifferenti, con l'aria di guardare qualcosa al di là di noi mentre votava.

«Non vedo rischi nell'immediato. La bambina per ora non rappresenta un pericolo. Possiamo sempre giudicarla in seguito. Viviamo in pace». La sua voce era ancora più debole dei sospiri leggeri dei suoi fratelli.

Alle sue parole, discordanti da quelle del fratello, nessuno nel corpo di guardia abbandonò la posizione di allerta. Caius non smise il suo ghigno: era come se Marcus non avesse nemmeno parlato.

«A quanto pare il voto decisivo spetta a me», disse Aro fra sé.

Improvvisamente, Edward s'irrigidì al mio fianco. «Sì!», sibilò.

Mi arrischiai a guardarlo. Il viso gli brillava di un'espressione trionfante che non capivo: quella che potrebbe avere un angelo sterminatore mentre osserva il mondo bruciare. Bello e terrificante.

Ci fu una tenue reazione da parte del corpo di guardia, un mormorio di disagio.

«Aro?», lo chiamò Edward, quasi gridando, con una sfumatura malcelata di vittoria nella voce.

Aro esitò per un secondo, valutando con cautela questo nuovo umore prima di rispondere. «Sì, Edward? Hai qualcos'altro da...?».

«Forse», disse Edward a mezza voce, controllando la sua esaltazione inspiegabile. «Prima di tutto, posso chiarire un punto?».

«Ma certo», disse Aro, inarcando le sopracciglia, e ora il suo tono non tradiva altro che un gentile interessamento. Digrignai i denti: Aro era al massimo della pericolosità quando si dimostrava gentile.

«Il pericolo che vedi rappresentato da mia figlia nasce soltanto dalla nostra incapacità di prevedere la sua crescita? È questo il nodo della questione?».

«Sì, amico Edward», convenne Aro. «Se potessimo solo essere certi... essere davvero sicuri che, quando cresce, sarà capace di restare celata al mondo umano, senza mettere in pericolo la sicurezza del nostro mondo segreto...». La voce gli si affievolì e lui si strinse nelle spalle.

«Quindi se potessimo sapere con certezza cosa diventerà...», insinuò Edward, «non ci sarebbe alcun bisogno di un ulteriore consiglio?».

«Se ci fosse un qualche modo di essere certi al cento per cento», convenne Aro, la voce morbida un poco più stridula. Non capiva dove volesse arrivare Edward. E nemmeno io. «In quel caso, sì: non ci sarebbero più problemi su cui discutere».

«E noi ci saluteremo in pace e saremo di nuovo buoni amici?», chiese Edward con una punta d'ironia.

La voce era ancora più acuta. «Ma certo, mio giovane amico. Niente potrebbe farmi più piacere».

Edward ridacchiò esultante. «Allora ho davvero qualcos'altro da offrirti».

Aro affilò lo sguardo. «Lei è assolutamente unica. Il suo futuro si può solo indovinare».

«Non è assolutamente unica», dissentì Edward. «È rara, di sicuro, ma non proprio unica».

Cercai di combattere lo shock, come se la speranza improvvisa che nasceva costituisse per me una distrazione inutile. La foschia nauseabonda mulinava ancora lungo i bordi del mio scudo. E mentre mi sforzavo di concentrarmi, sentii di nuovo la pressione acuminata e martellante contro il mio involucro protettivo.

«Aro, puoi chiedere a Jane di smettere di attaccare mia moglie?», chiese gentilmente Edward. «Stiamo ancora discutendo delle prove».

Aro alzò una mano. «Pace, miei cari. Ascoltiamolo».

La pressione sparì. Jane mi mostrò i denti e io non riuscii a fare a meno di digrignare i miei per tutta risposta.

«Perché non ci raggiungi, Alice?», chiamò forte Edward.

«Alice», sussurrò Esme, sconvolta.

Alice!

Alice, Alice, Alice!

«Alice!», «Alice!», mormoravano altre voci intorno a me.

«Alice», bisbigliò Aro.

Fui pervasa dal sollievo e da una gioia violenta. Mi ci volle tutta la mia forza di volontà per mantenere lo scudo dove si trovava. La nebbia di Alec lo metteva ancora alla prova, cercando un punto debole; se avessi lasciato qualche buco, Jane lo avrebbe visto.

Poi li sentii correre nella foresta, volando, coprendo la distanza nel modo più rapido possibile, senza badare a rallentare per non creare rumore.

Le fazioni erano immobili in attesa. I testimoni dei Volturi aspettavano torvi, confusi e perplessi.

Poi Alice entrò danzando nella radura da sud-ovest e, se fosse stato possibile, il sollievo di rivedere il suo viso mi avrebbe fatto quasi venire un colpo. Jasper la seguiva a pochi centimetri di distanza, lo sguardo fiero e penetrante. Dietro di loro, tre sconosciuti: la prima era una femmina alta e muscolosa con scuri capelli ingovernabili. Ovviamente si trattava di Kachiri. Aveva le stesse membra e i tratti allungati delle altre amazzoni, nel suo caso ancora più pronunciati.

La successiva era una piccola vampira dalla pelle olivastra con una lunga treccia di capelli neri che le ondeggiava sulla schiena. Aveva occhi di un color bordeaux scuro che si muovevano nervosi osservando la folla coinvolta nella disputa.

L'ultimo era un giovane, che non correva con altrettanta velocità e fluidità. Aveva la pelle di un marrone scuro intensissimo, quasi impossibile. Con uno sguardo cauto degli occhi di un caldo color tek perlustrò l'adunata. Anche lui aveva i capelli neri e intrecciati, come la donna, ma non altrettanto lunghi. Era bellissimo.

Mentre ci si avvicinava, un suono imprevisto diffuse ondate di sconvolgimento nella folla degli astanti: il battito di un cuore, accelerato dallo sforzo.

Alice spiccò un salto leggero per superare i confini della foschia sparsa che lambiva il mio scudo e si fermò sinuosa a fianco di Edward. Mi sporsi a toccarle il braccio; Edward, Esme e Carlisle fecero altrettanto. Non c'era tempo per altri tipi di benvenuto. Jasper e gli altri la seguirono attraverso lo scudo.

Tutto il corpo di guardia osservò con occhi pieni di congetture i nuovi arrivati, che attraversavano senza alcuna difficoltà il confine invisibile. I più robusti, Felix e gli altri come lui, concentrarono lo sguardo improvvisamente speranzoso su di me. Non erano sicuri di cosa il mio scudo sapesse respingere, ma ora era chiaro che non avrebbe fermato un assalto fisico. Non appena Aro avesse dato il segnale, si sarebbe scatenato l'attacco, con me per unico obiettivo. Mi chiesi quanti ne sarebbe riusciti ad accecare Zafrina e se questo li avrebbe rallentati. Abbastanza perché Kate e Vladimir togliessero di mezzo Jane e Alec? Non chiedevo di meglio.

Edward, nonostante la concentrazione nell'assalto che stava per sferrare, s'irrigidì furioso in reazione ai loro pensieri. Si controllò e rivolse di nuovo la parola ad Aro.

«Nelle ultime settimane Alice ha cercato per conto suo dei testimoni», disse all'anziano. «E non è tornata a mani vuote. Alice, perché non ci presenti i testimoni che hai portato con te?».

Caius ringhiò. «È finito il tempo concesso alle testimonianze! Aro, deciditi a votare!».

Aro alzò un dito per tacitare il fratello e incollò gli occhi al viso di Alice.

Alice fece un passo avanti con grazia e presentò gli sconosciuti. «Lei si chiama Huilen e lui è suo nipote Nahuel».

Ah, sentire la sua voce... Era come se non fosse mai partita.

Caius strinse forte gli occhi mentre Alice menzionava il rapporto che intercorreva fra i due nuovi arrivati. I testimoni dei Volturi sibilarono fra sé. Il mondo dei vampiri stava cambiando e tutti lo sentivano.

«Parla, Huilen», le ordinò Aro. «Dacci la testimonianza per la quale sei stata condotta fin qui».

La donna minuta guardò Alice, nervosa. Alice le fece un cenno d'incoraggiamento e Kachiri posò la lunga mano sulla spalla della piccola vampira.

«Mi chiamo Huilen», annunciò la donna in un inglese chiaro, ma con un accento strano. Mentre continuava, era evidente che si era preparata a raccontare questa storia, che si era esercitata. Scorreva alla perfezione, come una favola per bambini. «Un secolo e mezzo fa abitavo con il mio popolo, i Mapuche. Mia sorella si chiamava Pire. I nostri genitori le avevano dato il nome della neve sulle montagne, perché aveva la pelle chiara. Ed era bellissima, fin troppo bella. Un giorno venne da me a confidarmi il segreto dell'angelo che l'aveva scoperta nei boschi e l'andava a trovare di notte. Io la misi in guardia». Huilen scosse la testa, addolorata. «Come se non fossero bastati i lividi che aveva sulla pelle, per metterla in guardia. Sapevo che si trattava del Lobishomen delle nostre leggende, ma lei non voleva ascoltarmi. Era sotto l'effetto di un incantesimo.

Quando fu sicura che il figlio del suo angelo scuro le stava crescendo dentro, me lo disse. Non cercai di scoraggiarla dal suo progetto di fuga: sapevo che persino nostro padre e nostra madre avrebbero convenuto che quel bambino doveva essere ucciso e Pire insieme a lui. L'accompagnai nelle zone più remote della foresta. Lei cercò il suo angelo demonio, ma non trovò nulla. Mi presi cura di lei e cacciai per lei quando le forze le vennero meno. Si cibava di animali crudi, beveva il loro sangue. Non avevo più bisogno di conferme su quello che lei portava nel ventre. Speravo di salvarle la vita prima di uccidere il mostro. Ma lei amava il bambino che le cresceva dentro. Lo chiamò Nahuel, come il giaguaro, quando diventò forte e le spezzò le ossa; e nonostante questo continuava ad amarlo.

Non riuscii a salvarla. Il bambino uscì dal grembo facendo a pezzi il corpo della madre e lei morì presto, mentre mi supplicava senza sosta di prendermi cura del suo Nahuel. Fu il suo ultimo desiderio, e accettai di esaudirlo. Però lui mi morse quando cercai di sollevarlo dal corpo di sua madre. Andai a nascondermi nella giungla a morire. Non mi allontanai di molto perché il dolore era troppo. Ma lui mi trovò: il neonato si era fatto strada a fatica nel sottobosco fino ad arrivare da me e mi aspettò. Quando il dolore finì, trovai il piccolo accoccolato vicino a me che dormiva.

Mi sono presa cura di lui finché non è stato in grado di cacciare da solo. Cacciavamo nei villaggi della nostra foresta, restando in disparte. Non ci siamo mai allontanati tanto dalla nostra casa, ma Nahuel voleva vedere la bambina che c'è qui».

Chinò il capo quando finì di parlare e arretrò in modo da nascondersi in parte dietro Kachiri.

Aro aveva le labbra increspate. Fissò il giovanotto dalla pelle scura.

«Nahuel, hai centocinquanta anni?», gli chiese.

«Sì, decennio più, decennio meno», rispose con una voce calda, limpida e bella. L'accento si notava a malapena. «Noi non li contiamo».

«E a quanti anni hai raggiunto la maturità?».

«Circa sette anni dopo la mia nascita avevo completato la crescita».

«E da allora non sei cambiato?».

Nahuel alzò le spalle: «Non che io sappia».

Sentii il brivido che fece tremare il corpo di Jacob. Io invece preferivo non pormi ancora quel problema. Avrei aspettato che il pericolo fosse passato, in modo da potermi concentrare.

«E di cosa ti nutri?», lo incalzò Aro, interessato suo malgrado.

«Di sangue, soprattutto, ma anche di cibo umano. Posso sopravvivere con entrambi».

«Sei stato capace di creare un'immortale?». Mentre Aro indicava Huilen, improvvisamente la sua voce si fece molto partecipe. Tornai a concentrarmi sullo scudo: forse stava cercando un nuovo pretesto.

«Sì, ma nessuna delle altre sa farlo».

Un mormorio scioccato percorse tutti e tre i gruppi.

Aro alzò bruscamente le sopracciglia: «Le altre?».

«Le mie sorelle», rispose di nuovo Nahuel stringendosi nelle spalle.

Aro lo fissò per un attimo con occhi di brace prima di ricomporsi.

«Immagino che tu ci voglia raccontare il resto della tua storia, visto che a quanto pare non è finita».

Nahuel si accigliò.

«Qualche anno dopo la morte di mia madre, mio padre è venuto a cercarmi». Il suo bel viso si alterò leggermente. «È stato felice di trovarmi». Il tono di Nahuel suggeriva che la simpatia non fosse reciproca. «Aveva due figlie, ma nessun altro figlio maschio. Si aspettava che mi unissi a lui, come avevano fatto le mie sorelle. Si sorprese di non trovarmi solo. Le mie sorelle non sono velenose, ma non so se dipenda dal sesso o dal caso, chi può dirlo? Comunque io avevo già formato una famiglia con Huilen e cambiare non m'interessava», distorse quest'ultima parola. «Ogni tanto lo vedo. Ho una sorella nuova: ha raggiunto la maturità circa dieci anni fa».

«Tuo padre come si chiama?», chiese Caius a denti stretti.

«Joham», rispose Nahuel. «Si considera uno scienziato. È convinto di poter creare una nuova razza eletta». Non si sforzò di nascondere il disgusto.

Caius mi guardò. «Tua figlia è velenosa?», chiese bruscamente.

«No», risposi. Udita la domanda di Caius, Nahuel alzò di scatto la testa e gli occhi color tek sondarono il mio viso.

Caius guardò Aro in attesa di una conferma, ma quest'ultimo era troppo assorto nei propri pensieri. Increspò le labbra e fissò Carlisle, poi Edward, e infine il suo sguardo si fermò su di me.

Caius ringhiò. «Prendiamoci cura dell'anomalia che c'è qui e poi proseguiamo verso sud», incalzò suo fratello Aro.

Aro mi guardò negli occhi per un momento lungo e gravido di tensione. Non avevo la minima idea di cosa stesse cercando, o di cosa avesse trovato, ma, dopo avermi valutata per quell'attimo, qualcosa nella sua espressione cambiò, l'atteggiamento della bocca e dello sguardo variarono leggermente, e capii che aveva preso una decisione.

«Fratello», disse piano a Caius. «Pare proprio che non ci sia pericolo. Questo sviluppo è davvero insolito, ma non vedo alcuna minaccia. Sembra che questi mezzi vampiri siano quasi uguali a noi».

«Questo è il tuo voto?», chiese perentorio Caius.

«Sì».

Caius si accigliò. «E quel Joham? Quell'immortale così appassionato di sperimentazioni?».

«Forse è il caso che andiamo a parlare con lui», convenne Aro.

«Fermate pure Joham se volete», disse Nahuel con tono neutro. «Ma lasciate stare le mie sorelle. Loro sono innocenti».

Aro annuì, con espressione solenne. Poi si girò verso il suo corpo di guardia, con un sorriso cordiale.

«Miei cari», gridò. «Oggi non si combatte».

Il corpo di guardia annuì all'unisono e abbandonò la posizione di difesa. La foschia si disperse rapidamente, ma io continuai a mantenere attivo il mio scudo. Poteva darsi che fosse soltanto l'ennesimo trucco.

Analizzai le loro espressioni mentre Aro tornò a rivolgersi a noi. Aveva il solito viso benevolo, ma, al contrario di prima, avvertivo uno strano vuoto dietro la facciata, come se avesse smesso di tramare. Caius, chiaramente, era furioso, ma ora la sua era una rabbia interiore: si era rassegnato. Marcus aveva l'aria... annoiata: non avrei saputo come descriverla altrimenti. Il corpo di guardia era tornato a essere impassibile e disciplinato: al suo interno non c'erano individui, solo un intero. Si misero in formazione, pronti a partire. I testimoni dei Volturi restavano cauti: uno dopo l'altro se ne andarono, sparpagliandosi nei boschi. Mano a mano che diminuivano di numero, quelli che restavano si affrettavano. Presto non ne rimase più nessuno.

Aro tese le mani verso di noi, quasi per scusarsi. Dietro di lui la maggior parte del corpo di guardia, insieme a Caius, Marcus e alle mogli mute e misteriose, stava già allontanandosi rapidamente, sempre in formazione precisa. Solo i tre che sembravano costituire la sua guardia personale si erano trattenuti con lui.

«Sono così felice che tutto si sia potuto risolvere senza violenza», disse dolcemente. «Carlisle, amico mio, quanto mi fa piacere poterti chiamare di nuovo amico! Spero non ci sia rancore. So che capisci il rigido fardello che il nostro dovere ci pone sulle spalle».

«Vai in pace, Aro», disse secco Carlisle. «Ricorda che qui dobbiamo ancora proteggere il nostro anonimato, quindi fa' in modo che le tue guardie non si mettano a cacciare in questa regione».

«Ma certo, Carlisle», lo rassicurò Aro. «Mi dispiace che tu disapprovi, caro amico. Forse, col tempo, mi perdonerai».

«Forse, col tempo, se ci dimostrerai di nuovo la tua amicizia».

Aro chinò il capo, il rimorso fatto persona, e arretrò un poco prima di girarsi e andare via. Senza parlare, guardammo gli ultimi quattro Volturi che sparivano fra gli alberi.

Calò il silenzio, ma non mollai la presa sullo scudo.

«È davvero finita?», sussurrai a Edward.

Aveva un sorriso smagliante. «Sì. Si sono arresi. Come tutti i prepotenti, dietro la spavalderia sono dei vigliacchi». Ridacchiò.

Alice si unì alla risata. «Sul serio, gente. Non ritorneranno. Potete rilassarvi tutti, ora».

Ci fu un'altra pausa di silenzio.

«Fortuna sfacciata», borbottò Stefan.

E poi la gente capì.

Eruppero grida di giubilo. Ululati assordanti riempirono la radura. Maggie diede un pugno a Siobhan sulla schiena. Rosalie ed Emmett si baciarono di nuovo, stavolta più a lungo e con maggior passione. Benjamin e Tia erano serrati in un abbraccio, come Carmen ed Eleazar. Esme abbracciava forte Alice e Jasper. Carlisle stava ringraziando con affetto i nuovi arrivati dal Sudamerica che ci avevano salvati tutti. Kachiri era molto vicina a Zafrina e Senna, le dita intrecciate alle loro. Garrett sollevò da terra Kate e la fece girare in cerchio.

Stefan sputò sulla neve. Vladimir digrignò i denti con un'espressione stizzita.

Io quasi mi arrampicai sull'enorme lupo rossastro per strappargli mia figlia dalla schiena e poi stritolarla contro il mio petto. In quello stesso secondo Edward ci strinse in un abbraccio.

«Nessie, Nessie, Nessie», cantilenai.

Jacob rise nel suo modo fragoroso, simile a un latrato, e mi colpì la nuca con il naso.

«Sta' zitto», gli borbottai.

«Posso restare con voi?», domandò Nessie.

«Per sempre», le promisi.

L'eternità era nostra. E Nessie sarebbe stata bene, sarebbe cresciuta sana e forte. Come il semi-umano Nahuel, a centocinquant'anni sarebbe stata ancora giovane. E noi saremmo rimasti tutti insieme.

Dentro di me la felicità si espandeva come un'esplosione: così estrema, così violenta che non ero sicura di riuscire a sopravvivere.

«Per sempre», mi ripeté Edward nell'orecchio.

Non riuscivo più a parlare. Alzai la testa e lo baciai con una passione che avrebbe potuto incendiare la foresta.

Ma io non me ne sarei accorta.

39

Felici e contenti

«E quindi alla fine ha agito una combinazione di fattori, ma se bisogna sintetizzare è stata... Bella», stava spiegando Edward. La nostra famiglia e gli unici due ospiti rimasti erano seduti nel salone dei Cullen, mentre la foresta imbruniva fuori dalla vetrata.

Vladimir e Stefan erano svaniti prima ancora che avessimo finito di festeggiare. Erano parecchio delusi dal modo in cui si erano risolte le cose, ma Edward disse che si erano goduti la vigliaccheria dei Volturi quasi quanto bastava a compensare la loro frustrazione.

Benjamin e Tia avevano seguito rapidamente le orme di Amun e Kebi, impazienti di metterli a parte dell'esito della contesa; ero sicura che avremmo rivisto gli egizi, quantomeno Benjamin e Tia. Nessuno dei nomadi si trattenne. Peter e Charlotte conversarono brevemente con Jasper, poi partirono anche loro.

Persino le amazzoni, finalmente riunite, non vedevano l'ora di tornare a casa: facevano molta fatica a stare lontane dalla loro adorata foresta pluviale, per quanto fossero più riluttanti a lasciarci di molti altri.

«Devi portare la bambina a trovarmi», aveva insistito Zafrina. «Promettimelo, piccola».

Nessie mi aveva poggiato la mano sul collo, supplicandomi a sua volta.

«Ma certo, Zafrina», avevo confermato.

«Saremo grandi amiche, mia piccola Nessie», aveva dichiarato la donna selvaggia prima di partire con le sorelle.

Il clan degli irlandesi partecipava alla partenza in massa.

«Brava, Siobhan», si congratulò Carlisle mentre si congedavano.

«Ah, il potere delle illusioni», rispose lei sarcastica, alzando gli occhi al cielo. Poi di botto tornò seria. «Naturalmente non è finita. I Volturi non perdoneranno ciò che è successo qui».

Fu Edward a risponderle. «Sono rimasti gravemente scossi: la loro fiducia in se stessi è a pezzi. Però sono sicuro che prima o poi si riprenderanno dal colpo. E allora...». Socchiuse gli occhi. «Immagino che cercheranno di colpirci uno alla volta».

«Alice ci avvertirà quando decideranno di attaccare», disse Siobhan con voce ferma. «E noi ci raduneremo ancora. Forse verrà un momento in cui il nostro mondo sarà pronto a essere del tutto libero dai Volturi».

«Quel momento potrebbe arrivare», rispose Carlisle. «E se arriva, ci troverà uniti».

«Sì, amico mio», assentì Siobhan. «E com'è possibile fallire, quando io desidererò che accada l'opposto?». Scoppiò a ridere forte.

«Proprio così», disse Carlisle. Scambiò un abbraccio con Siobhan, poi strinse la mano a Liam. «Prova a rintracciare Alistair e a raccontargli cos'è successo. Non vorrei proprio che se ne stesse nascosto sotto una roccia per il prossimo decennio».

Siobhan rise di nuovo. Maggie abbracciò sia Nessie che me, infine il clan irlandese se ne andò.

I vampiri di Denali furono gli ultimi a lasciarci e Garrett partì con loro - ero piuttosto sicura che si trattasse di una scelta permanente. L'atmosfera di festeggiamento era eccessiva per Tanya e Kate. Avevano bisogno di tempo per piangere la sorella perduta.

Huilen e Nahuel invece erano rimasti, malgrado mi aspettassi di vederli partire con le amazzoni. Carlisle era immerso in un'intensa conversazione con Huilen; Nahuel le sedeva vicino e ascoltava mentre Edward raccontava a noi la storia della contesa come solo lui poteva saperla.

«Alice ha fornito ad Aro la scusa che gli serviva per uscire dallo scontro. Se non fosse stato tanto terrorizzato da Bella, probabilmente avrebbe portato avanti il piano originale».

«Terrorizzato?», chiesi scettica. «Da me?».

Mi sorrise con uno sguardo che non riconoscevo del tutto: era tenero, ma anche ammirato e persino spazientito. «Quando ti deciderai a vederti in modo chiaro?», disse, dolcemente. Poi parlò ad alta voce, rivolto agli altri oltre che a me. «In duemilacinquecento anni i Volturi non hanno mai combattuto ad armi pari. Men che meno in condizione di svantaggio. Specialmente da quando hanno acquisito Jane e Alec, si sono dedicati solo a massacri nei quali la resistenza del nemico era nulla.

Avresti dovuto vedere che impressione gli abbiamo fatto! Di solito Alec annienta i sensi e le emozioni delle vittime mentre loro fingono di riunirsi a consiglio. In quel modo, nessuno può scappare quando pronunciano il verdetto. Ma noi eravamo lì, pronti, in attesa, in numero superiore al loro, con doni speciali tutti nostri, mentre i loro talenti venivano neutralizzati da Bella. Aro sapeva che, con Zafrina dalla nostra parte, all'inizio sarebbero stati accecati. Sono sicuro che le nostre schiere sarebbero state decimate abbastanza gravemente, ma loro erano certi di subire almeno altrettante perdite. C'era persino una discreta possibilità che perdessero. Non gli è mai capitato di misurarsi con una possibilità simile. E oggi non vi si sono misurati con onore».

«Difficile sentirsi sicuri quando si è circondati da lupi grossi come cavalli», rise Emmett e diede un pizzicotto sul braccio a Jacob.

Jacob gli scoccò un gran sorriso.

«Sono stati i lupi a fermarli, prima di tutto», dissi.

«Di sicuro», convenne Jacob.

«Proprio così», annuì Edward. «Altra visione senza precedenti, per loro. I veri Figli della Luna si muovono raramente in branco, non riescono a controllarsi molto. Non erano preparati alla sorpresa di sedici enormi lupi irreggimentati. Caius ha davvero il terrore dei licantropi. Ha quasi perso uno scontro con uno di loro, qualche migliaio di anni fa, e non l'ha mai dimenticato».

«Quindi esistono dei veri licantropi?», chiesi. «Con la luna piena e le pallottole d'argento e tutte quelle storie?».

Jacob sbuffò. «"Veri". E io cosa sono, immaginario?».

«Hai capito benissimo».

«Sì, la luna piena è una storia vera», disse Edward. «Quella delle pallottole d'argento, no: è solo una leggenda nata perché gli umani si sentissero in grado di fronteggiarli. Non ne rimangono molti. Caius li ha fatti cacciare fin quasi all'estinzione».

«Non ne hai mai parlato perché...?».

«Non ce n'è mai stata occasione».

Alzai gli occhi al cielo e Alice rise, sporgendosi in avanti - era infilata sotto l'altro braccio di Edward - per farmi l'occhiolino.

La ricambiai con un'occhiataccia.

A nessuno volevo bene come a lei, naturalmente. Ma ora che mi rendevo davvero conto che era tornata a casa, e che la sua diserzione era stato un semplice stratagemma per far credere a Edward che ci avesse abbandonati, cominciava a montarmi una certa rabbia. Alice mi doveva delle spiegazioni.

Lei sospirò. «Sputa il rospo, Bella».

«Come hai potuto farmi questo, Alice?».

«Era necessario».

«Necessario!», sbottai. «Eri riuscita a convincermi che saremmo morti! Sono stata uno straccio per settimane».

«Poteva finire così», rispose calma. «Nel qual caso dovevi essere preparata a salvare Nessie».

Per istinto, strinsi più forte la piccola, che ora mi dormiva in braccio.

«Ma sapevi che c'erano anche altre possibilità», l'accusai. «Sapevi che qualche speranza esisteva. Ti è mai venuto in mente che avresti potuto dirmi tutto? Ho capito che Edward, per via di Aro, doveva credere che fossimo spacciati, ma almeno a me avresti potuto dirlo».

Mi guardò per un attimo, meditativa. «Non credo proprio», disse. «Non sei una brava attrice, punto e basta».

«Cioè il problema era il mio talento nella recitazione?».

«Non esagerare, Bella. Hai idea di quanto sia stato complicato organizzare tutto? Non ero nemmeno sicura che esistesse qualcuno come Nahuel: sapevo solo che stavo cercando qualcosa che non avrei potuto vedere! Prova a immaginare di individuare un punto cieco: non è certo la cosa più facile che mi sia capitato di fare. In più dovevamo inviare qui i testimoni principali, come se non avessimo già avuto abbastanza fretta. E poi ho dovuto tenere gli occhi aperti in continuazione, nel caso tu decidessi di mandarmi altre istruzioni. Un giorno o l'altro mi dirai cosa c'è a Rio. Ma, ancora prima, dovevo prevedere tutti i trucchi che avrebbero potuto utilizzare i Volturi e trasmetterti ogni indizio in mio possesso per prepararti alla loro strategia... tutto nelle poche ore che mi rimanevano per abbozzare ogni possibilità. Ma principalmente, dovevo garantirmi che foste tutti convinti che vi avessi mollati: Aro doveva essere certo che non aveste assi nella manica, altrimenti non si sarebbe mai lasciato una scappatoia del genere. E se credi che non mi sia sentita un'idiota...».

«Okay, okay!», la interruppi. «Scusa tanto! Lo so che è stato terribile anche per te. È solo che... be', mi sei mancata da morire, Alice. Non farmi mai più una cosa del genere».

La sua risata squillante risuonò per la stanza e sorridemmo nel risentire quella musica. «Anche tu mi sei mancata, Bella. Quindi perdonami e cerca di accontentarti di essere la supereroina della giornata».

Adesso ridevano tutti, mentre nascondevo imbarazzata il viso fra i capelli di Nessie.

Edward riprese ad analizzare ogni cambiamento d'intenzioni e di controllo che si era verificato quel giorno nel prato, insistendo col dire che era stato il mio scudo a far fuggire i Volturi con la coda fra le gambe. Il modo in cui tutti mi guardavano mi metteva a disagio. Persino Edward. Era come se nel corso della mattina fossi cresciuta di tre metri. Cercai di ignorare gli sguardi ammirati e di concentrarmi sul visetto di Nessie che dormiva e sull'espressione immutata di Jacob. Per lui sarei sempre stata solo Bella e questa consapevolezza mi dava un grande sollievo.

Lo sguardo che era più difficile ignorare era anche quello che mi confondeva di più.

Nahuel, mezzo umano e mezzo vampiro, non mi aveva mai conosciuto prima. Per lui, me ne andavo in giro a sgominare attacchi di vampiri tutti i giorni e la scena nel prato non era stata niente d'insolito. Eppure quel ragazzo non mi toglieva gli occhi di dosso. O forse guardava Nessie. Anche quella possibilità mi metteva a disagio.

Lui non poteva certo ignorare che Nessie era la sola femmina della sua specie che non fosse sua sorellastra.

Probabilmente Jacob non aveva ancora pensato a quell'aspetto della situazione e speravo che non lo facesse tanto presto. Dopo un giorno come quello, ne avevo più che abbastanza di antagonismi e tensioni.

Alla fine gli altri esaurirono le domande da fare a Edward e la discussione si spezzettò in gruppetti più ridotti.

Mi sentivo stranamente stanca. Non avevo sonno, naturalmente, ma era come se la giornata fosse durata fin troppo. Volevo un po' di pace, un po' di normalità. Volevo mettere Nessie a dormire nel suo letto; volevo vedere le pareti della nostra casetta intorno a me. Guardai Edward e per un attimo mi sentii quasi capace di leggere nel pensiero. Capivo che si sentiva proprio nello stesso modo. Pronto per godersi un po' di pace.

«Portiamo Nessie...».

«Buona idea», convenne rapido. «Sono sicuro che non ha dormito bene la notte scorsa, con tutto quel russare».

Sorrise a Jacob.

Jacob alzò gli occhi al cielo e poi sbadigliò. «È da un po' che non dormo in un letto. Credo che mio padre si emozionerà tantissimo ad avermi di nuovo sotto il suo tetto».

Gli sfiorai una guancia. «Grazie, Jacob».

«Sai che puoi contare su di me, Bella. L'hai sempre saputo».

Si alzò, si stiracchiò, diede un bacio sulla testa a Nessie e poi a me. Infine, diede un pugno sulla spalla a Edward. «Ci vediamo domani. Mi sa che adesso sarà tutto un po' noioso, no?».

«Lo spero ardentemente», rispose Edward.

Non appena fu uscito, ci alzammo; mi mossi con attenzione in modo da non sballottare Nessie. Ero profondamente grata di vederla dormire bene. Quelle piccole spalle avevano sopportato un peso immenso. Era ora che potesse essere di nuovo bambina: protetta e al sicuro. Che si godesse ancora qualche anno d'infanzia.

L'idea di pace e di sicurezza mi ricordò qualcuno che non provava sempre quelle sensazioni.

«Ah, Jasper?», gli chiesi mentre ci dirigevamo verso la porta.

Era schiacciato fra Alice ed Esme, e in un certo senso sembrava più essenziale del solito nel quadro familiare. «Sì, Bella?».

«Sono curiosa: perché J. Jenks si spaventa a morte solo sentendo il tuo nome?».

Jasper ridacchiò. «Per la mia esperienza, certi rapporti di lavoro funzionano meglio se sono motivati più dalla paura che dal guadagno».

Feci una smorfia, ripromettendomi che da quel momento in poi certi incarichi sarebbero spettati a me, per risparmiare a J. l'attacco di cuore che era sicuramente in arrivo.

Ci baciarono, ci abbracciarono e noi augurammo la buona notte alla nostra famiglia. L'unica nota stonata era di nuovo Nahuel, che ci guardava intensamente, come volesse seguirci.

Attraversato il fiume, ci incamminammo con un passo appena più veloce di quello umano, senza fretta, tenendoci per mano. Ero stufa di essere ostaggio delle scadenze, volevo prendermela con calma. Edward probabilmente era d'accordo.

«Devo dire che sono davvero colpito da Jacob al momento», disse Edward.

«I lupi fanno la loro figura, vero?».

«Volevo dire un'altra cosa. Oggi non ha mai pensato al fatto che, secondo quello che dice Nahuel, Nessie avrà raggiunto la maturità completa solo fra sei anni e mezzo».

Ci riflettei per un attimo. «Lui non la vede così. Non ha nessuna fretta che cresca. Vuole solo che lei sia felice».

«Lo so. E la cosa mi colpisce, come ti dicevo. Sarà anche una cosa da non dirsi, ma poteva andarle molto peggio».

Mi accigliai. «Non intendo pensarci per i prossimi sei anni e mezzo».

Edward rise, poi sospirò. «Certo, a quanto pare avrà un concorrente di cui preoccuparsi, quando arriverà il momento».

Aggrottai ancora un poco le sopracciglia. «Me ne sono accorta. Sono grata a Nahuel per oggi ma tutto quel fissare era un po' strano. Non m'importa niente che lei sia l'unica mezza vampira che non è sua parente».

«Ma non stava fissando lei: fissava te».

Era sembrato anche a me, però non aveva alcun senso. «E perché dovrebbe?».

«Perché tu sei viva», disse piano.

«Non ti seguo».

«Per tutta la vita - e ha cinquant'anni più di me...», cominciò a spiegare Edward.

«È decrepito, allora», lo interruppi.

Mi ignorò. «...si è sempre sentito una creatura del male, assassino per natura. Anche le sue sorellastre hanno ucciso le proprie madri, ma non ci avevano mai dato peso. Joham le ha educate nella certezza che gli umani fossero animali, mentre loro erano divinità. Nahuel invece è stato cresciuto da Huilen, che amava sua sorella più di ogni altra cosa. È stata lei a plasmare tutto il modo di pensare del ragazzo. E per certi versi lui si è detestato davvero».

«Che cosa triste», mormorai.

«Poi ha visto noi tre e ha capito per la prima volta che, se anche è mezzo immortale, non vuol dire che sia una creatura malvagia per natura. Mi guarda e vede... ciò che avrebbe dovuto essere suo padre».

«Ma tu sei una figura piuttosto ideale, da tutti i punti di vista», concordai.

Sbuffò, poi tornò serio. «Guarda te e vede la vita che avrebbe dovuto avere sua madre».

«Povero Nahuel», mormorai e poi mi sfuggì un sospiro, perché ero consapevole che non sarei più riuscita a pensar male di lui, per quanto mi mettesse a disagio avere il suo sguardo addosso.

«Non essere triste per lui. Ora è felice. Oggi ha cominciato finalmente a perdonarsi».

Sorrisi per la felicità di Nahuel e poi pensai che quella giornata doveva essere consacrata alla felicità. Anche se il sacrificio di Irina gettava un'ombra buia sopra la luce bianca e impediva a quel momento di essere perfetto, era impossibile negare la gioia. La vita per cui avevo combattuto era di nuovo al sicuro. La mia famiglia era riunita. Mia figlia aveva un bel futuro che si stendeva infinito davanti a lei. L'indomani sarei andata a trovare mio padre: avrebbe visto che la paura del mio sguardo si era trasformata in gioia, e sarebbe stato felice anche lui. Improvvisamente ebbi la certezza che non lo avrei trovato solo. Nelle ultime settimane non ero stata una buona osservatrice come di consueto, ma in quel momento era come se l'avessi sempre saputo. Da Charlie avrei incontrato Sue - la mamma dei licantropi con il papà della vampira - e lui non sarebbe più stato solo. Sorrisi felice di quella nuova intuizione.

Ma il fatto più significativo in quell'ondata di felicità era il più certo di tutti: ero insieme a Edward. Per sempre.

Non che avessi voglia di rivivere le ultime settimane, però dovevo ammettere che erano servite più che mai a farmi apprezzare ciò che avevo.

La nostra casetta era un luogo di pace e perfezione nel blu argentato della notte. Portammo Nessie nel suo lettino e le rimboccammo piano le coperte. Sorrideva nel sonno.

Presi il regalo di Aro che avevo al collo e lo gettai piano neh l'angolo della sua camera. Ci poteva giocare, se voleva: le piacevano gli oggetti luccicanti.

Io ed Edward ci dirigemmo lentamente nella nostra stanza, dondolando le braccia.

«È una notte da festeggiamenti», mormorò e mi posò la mano sotto il mento per sollevarmi le labbra alla sua altezza.

«Aspetta», esitai, ritraendomi.

Mi guardò confuso. Non era da me reagire in quel modo. Anzi, quella era la prima volta che facevo un'eccezione.

«Voglio provare una cosa», lo informai, sorridendo un po' della sua espressione perplessa.

Gli posai le mani su entrambi i lati del viso e chiusi gli occhi per concentrarmi.

Non ero stata bravissima in passato, quando Zafrina aveva cercato di insegnarmelo, ma ormai conoscevo meglio il mio scudo. Avevo riconosciuto la parte che lottava per non separarsi da me, l'istinto automatico di proteggere me stessa sopra ogni altra cosa.

Era ancora molto più difficile che non riparare sotto lo scudo altre persone insieme a me. Sentii l'elastico rimbalzare di nuovo mentre lo scudo lottava per proteggermi. Dovetti sforzarmi per togliermelo di dosso: ci volle tutta la mia capacità di concentrazione.

«Bella!», esclamò Edward, sconvolto.

In quel momento capii che stava funzionando e mi concentrai ancora di più, ripescando i ricordi specifici che avevo conservato per questo momento, lasciando che m'inondassero la mente, nella speranza che entrassero anche nella sua.

Alcuni ricordi non erano chiari, dei ricordi umani indistinti, visti con occhi deboli e sentiti con deboli orecchie: la prima volta che avevo visto il suo volto... come mi ero sentita quando mi aveva abbracciata nella radura... il suono della sua voce attraverso il buio dell'incoscienza quando mi aveva salvata da James... il suo viso mentre mi aspettava sotto un baldacchino fiorito per sposarmi... tutti i bei momenti passati sull'isola... le sue mani fredde che toccavano nostra figlia attraverso la mia pelle...

E i ricordi più nitidi, perfetti: il suo viso quando avevo aperto gli occhi nella mia nuova vita, davanti all'alba infinita dell'immortalità... quel primo bacio... quella prima notte...

Le sue labbra, improvvisamente bramose contro le mie, interruppero la concentrazione.

Annaspai e il peso ribelle che stavo allontanando da me mi sfuggi. Tornò al suo posto con uno schiocco, come un elastico, a proteggere i miei pensieri.

«Ops, l'ho perso!», sospirai.

«Ma io ti ho sentita», sussurrò. «Come ci sei riuscita?».

«È stata un'idea di Zafrina. Ci siamo allenate qualche volta».

Era sbalordito. Batté due volte le palpebre e scosse il capo.

«Ora lo sai», dissi spensierata, alzando le spalle. «Nessuno ha mai amato tanto qualcuno quanto io amo te».

«Hai quasi fatto centro». Sorrise e aveva ancora gli occhi un po' più dilatati del solito. «Conosco solo un'eccezione».

«Bugiardo».

Ricominciò a baciarmi, ma si fermò all'improvviso.

«Puoi rifarlo?», mi chiese.

Feci una smorfia. «È molto difficile».

Aspettò, con espressione impaziente.

«Non posso reggerlo se mi distrai anche solo un pochino», lo avvertii.

«Faccio il bravo», promise.

Increspai le labbra, socchiudendo gli occhi. Poi sorrisi.

Premetti di nuovo le mani sul suo viso, sollevai lo scudo dalla mente e ricominciai dove avevo smesso: con il ricordo nitidissimo della prima notte dentro la mia nuova vita... indugiando sui particolari.

Senza fiato, una risatina mi sfuggì quando il suo bacio insistente interruppe di nuovo i miei sforzi.

«Accidenti», ruggì, baciandomi famelico lungo il profilo del mento.

«Abbiamo un sacco di tempo per allenarci», gli ricordai.

«Tutta l'eternità», mormorò.

«Mi sembra convincente».

E poi continuammo a occuparci beati di quella parte piccola, ma perfetta, della nostra eternità.

Elenco dei vampiri

In ordine alfabetico per clan

* il vampiro possiede un talento soprannaturale identificabile

- legame di coppia (il primo elencato è il più anziano)

cancellato defunto prima dell'inizio di questo romanzo

CLAN DELLE AMAZZONI


CLAN DEI RUMENI

Kachiri


Stefan

Senna


Vladimir

Zafrina*






CLAN DEI VOLTURI

CLAN DI DENALI


Aro* - Sulpicia

Eleazar* - Carmen


Caius - Athenodora

Irina - Laurent


Marcus* - Didyme*

Kate*



Sasha


IL CORPO DI GUARDIA

Tanya


DEI VOLTURI (PARZIALE)

Vasilii


Alec*




Chelsea* - Afton*

CLAN EGIZIO


Corin*

Amun - Kebi


Demetri*

Benjamin* - Tia


Felix




Heidi*

CLAN IRLANDESE


Jane*

Maggie*


Renata*

Siobhan* - Liam


Santiago





CLAN DI OLYMPIA


I NOMADI AMERICANI (PARZIALE)

Carlisle - Esme


Garrett

Edward* - Bella*


James* - Victoria*

Jasper* - Alice*


Mary

Renesmee*


Peter - Charlotte

Rosalie - Emmett


Randall





I NOMADI EUROPEI (PARZIALE)

Alistair*

Charles* - Makenna

Ringraziamenti

Come sempre, un oceano di grazie a...

La mia famiglia meravigliosa, per il suo amore e il suo appoggio impareggiabile.

La mia abile e splendida addetta stampa, Elizabeth Eulberg, per aver creato STEPHENIE MEYER dalla creta grezza che una volta era solo la timida Steph.

Tutta la squadra della Little, Brown Books for Young Readers per cinque anni di entusiasmo, fiducia, appoggio e duro lavoro.

Tutti gli incredibili creatori e amministratori di siti Internet dei fan della saga di Twilight: ragazzi, siete troppo grandi!

I miei fan, fantastici e meravigliosi, con il loro buon gusto ineguagliabile in fatto di libri, musica e film, perché continuano ad amarmi più di quanto meriti.

Le librerie che hanno fatto di questa serie un successo con i loro consigli: tutti gli scrittori sono in debito con voi, per l'amore e la passione che portate alla letteratura.

I molti musicisti e gruppi che mi danno stimoli: forse vi ho già detto dei Muse? Ah, davvero? Be', peccato. I Muse, i Muse e poi ancora i Muse...

Nuovi ringraziamenti a:

Il miglior gruppo immaginario: Nic and the Jens, ospite speciale Shelly C. (Nicole Driggs, Jennifer Hancock, Jennifer Longman e Shelly Colvin). Grazie per avermi preso sotto la vostra ala, ragazzi. Senza di voi vivrei segregata in casa.

I miei amici e fonti di saggezza a distanza, Cool Meghan Hibbett e Kimberly "Shazzer" Suchy.

Il mio gruppo di autoaiuto vivente, Shannon Hale, perché capisce assolutamente tutto, e perché alimenta il mio amore per le barzellette sugli zombi.

Makenna Jewell Lewis per avermi concesso di usare il suo nome, e sua madre Heather per aver sostenuto l'Arizona Ballet.

I nuovi arrivati nella playlist dei miei ispiratori: Interpol, Motion City Soundtrack e Spoon.

FINE

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